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Sulla (in)applicabilità dell'art. 393 c.p.c. al processo fallimentare

Mario Pio Fuiano, Ricercatore di Diritto processuale civile nell’Università degli Studi di Foggia

Con la sentenza in epigrafe, la Suprema corte – chiamata a pronunciarsi per la prima volta sulla quaestio iuris – ha stabilito che l’art. 393 c.p.c. opera anche con riferimento al processo per la dichiarazione di fallimento. L’Autore, dopo aver analizzato criticamente le motivazioni poste a base della decisione, giunge ad affermare che il principio enunciato dalla Cassazione non è condivisibile, sia perché confligge con la natura non sostitutiva del reclamo e, più in generale, con la struttura del processo fallimentare; sia perché solleva dubbi di legittimità costituzionale.

On the (in)applicability of art. 393 c.p.c. to bankruptcy proceedings

With the judgement in indicated epigraph, The Supreme Court – for the first time ever called upon to rule on quaestio iuris – has stated that the art. 393 c.p.c. must also implement the bankruptcy trial. The author, after critically analysing the reasons for the decision, comes to the conclusion that the principle laid down by the Court is inadmissible, as it conflicts both with the not substitute nature of the claim and, more generally, with the whole structure of the bankruptcy trial. It also would raise doubts of constitutional legitimacy.

Keywords: bankruptcy procedure – proceedings dismissal – claim pursuant to art. 18 l.f.

CASSAZIONE CIVILE, SEZ. I, 10 febbraio 2020, n. 3022 Pres. A. Didone, Est. F. Terrusi (Art. 18 L. Fall.; art. 393 c.p.c.) Ove il provvedimento di rigetto del reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento sia cassato con rinvio e il processo non sia riassunto nel termine prescritto, in applicazione della regola generale di cui all’art. 393 c.p.c., l’intero processo si estingue e la sentenza di fallimento diviene inefficace. (Omissis). Con sentenza del 21 novembre 2011 il Tribunale di Roma, avendo ravvisato l’esistenza di una società di fatto (Omissis) e avendone accertata l’insolvenza, ne dichiarò il fallimento, esteso personalmente anche ai soci. La Corte d’appello di Roma respinse il reclamo ex art. 18 L. Fall. (Omissis). La sentenza venne impugnata (Omissis), con ricorso per cassazione, e la corte (a sezioni unite, (Omissis) dispose il rinvio della causa alla medesima corte d’appello (Omissis). Il processo non venne [continua ..]


Commento

Sommario:

1. Premessa - 2. L’operatività dell’art. 393 c.p.c. in sede fallimentare: le ragioni della Cassazione - 3. Sulla (denegata) utilità del richiamo all’art. 119, ult. comma, L. Fall. - 4. La sentenza di fallimento e la sua impugnazione - 5. L’effetto (meramente) rescindente dei provvedimenti resi all’esito dei reclami ex artt. 18 e 22 L. Fall. - 6. La sentenza di fallimento, la sentenza di revoca e l’autonomia dei rispettivi “effetti” - 7. L’efficacia caducatoria e conformativa della sentenza di revoca del fallimento - 8. Le condizioni necessarie e sufficienti per la rimozione degli effetti del fallimento - 9. L’incompatibilità dell’estinzione ex art. 393 c.p.c. col processo fallimentare - 10. Conclusioni - NOTE


1. Premessa
La recentissima Cass. n. 3022/2020 desta particolare interesse perché affronta il tema dell’applicabilità al processo per la dichiarazione di fallimento della fattispecie estintiva disciplinata dall’art. 393 c.p.c. [1], una questione assai delicata che, se non ci s’inganna, giammai era stata trattata nelle aule del «palazzaccio» di piazza Cavour [2]. Prima di entrare in medias res, è però forse il caso di illustrare i fatti che hanno originato quella decisione. Nel caso di specie, la Corte d’appello di Roma aveva rigettato il reclamo ex art. 18 L. Fall. promosso avverso la sentenza con cui il tribunale della capitale, ravvisata l’esistenza (ed accertato lo stato d’insolvenza) di una società di fatto tra una pluralità di persone fisiche, aveva dichiarato il fallimento della compagine e dei suoi singoli soci. La pronuncia di secondo grado era impugnata dinanzi alla S.C. la quale, [continua ..]

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2. L’operatività dell’art. 393 c.p.c. in sede fallimentare: le ragioni della Cassazione
La soluzione prospettata da Cass. n. 3022/2020 merita la massima attenzione e va analizzata partendo dalla illustrazione delle motivazioni giuridiche ad essa sottese. A dire della Corte regolatrice, il decreto collegiale del Tribunale di Roma (sulla cui legittimità era stata chiamata ad esprimersi) si fondava su «una forzatura dei dati normativi oltre che sul travisamento della natura attribuibile all’art. 393 c.p.c. nel contesto della distinzione tra regole processuali e principi derogabili per effetto di principi “altri”, da riscontrare a livello di sistema». Nello specifico, la Cassazione ha evidenziato come il ragionamento del giudice del reclamo non fosse condivisibile per un triplice ordine di ragioni. Anzitutto perché la quaestio iuris atteneva alla sopravvivenza della declaratoria di fallimento all’estinzione del processo per violazione dei termini di cui all’art. 392 c.p.c., e non già [continua ..]

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3. Sulla (denegata) utilità del richiamo all’art. 119, ult. comma, L. Fall.
Le critiche mosse nella sentenza in commento al collegio che ha redatto il decreto cassato sono assai severe e, a ben vedere, parecchio ingenerose. Siffatto rilievo si giustifica non solo e non tanto in ragione del pregevole impegno profuso prima dal g.d. e poi dal giudice del reclamo nel riordinare, in chiave dogmatica e sistematica, una disciplina ostica nella quale convergono meccanismi incerti ed insidiosi (che la Suprema corte, nella sua disamina, ha invece trascurato); quanto e soprattutto perché è da ritenere che il tribunale capitolino, seppur attraverso una motivazione claudicante, sia giunto a conclusioni esatte, a differenza di Cass. n. 3022/2020, il cui approdo sembra tutt’altro che persuasivo. A quest’ultimo proposito, la prima cosa che vien fatto di osservare è che l’im­pianto teorico che sorregge la sentenza de qua pare viziato sin dall’origine. Gli è che la Cassazione, allorquando afferma perentoriamente (e [continua ..]

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4. La sentenza di fallimento e la sua impugnazione
Dal momento che «non c’è qualificazione, che non sia stata assegnata alla sentenza dichiarativa di fallimento» [20], ai nostri fini sarebbe poco proficuo soffermarsi su questo tema, anche perché ogni tentativo di inquadramento sistematico risentirebbe inevitabilmente del «vizio metodologico di riferire alla sentenza dichiarativa nozioni sistematiche, sorte in ambienti normativi diversi» [21]. È invece maggiormente realistico e produttivo limitarsi ad ammettere come la sentenza di fallimento sia: – sotto il profilo genetico, un comune provvedimento giurisdizionale reso dal tribunale all’esito di un giudizio – celebrato nel rispetto dell’art. 111 Cost. [22] e a cognizione piena – svolto con le modalità dei procedimenti camerali ex art. 737 ss. c.p.c., non necessariamente contenzioso [23] e nell’àmbito del quale è riservato ampio spazio all’impulso [continua ..]

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5. L’effetto (meramente) rescindente dei provvedimenti resi all’esito dei reclami ex artt. 18 e 22 L. Fall.
Astenendoci dal prender posizione sulla controversa natura – pienamente o parzialmente devolutiva – del reclamo [31] (tema attualissimo e dai ragguardevoli risvolti teorico-pratici ma, nell’economia di queste pagine, per nulla significativo), è preferibile soffermarsi sugli importanti corollari che derivano dai precetti testé elencati. In primis, dal postulato sub a) emerge con chiarezza la volontà del legislatore di attribuire in via esclusiva al tribunale la competenza a dichiarare il fallimento [32]. Sennonché, tale essendo la ratio sottesa all’art. 22, 4° comma, L. Fall., è da dire che questa norma, letta in un’ottica dinamica, evidenzia la consapevole scelta (operata sin dal 1942) di costruire il reclamo avverso il rigetto dell’istanza di fallimento come un’impugnazione rescindente [33]. Pur preservando, in subiecta materia, la competenza assoluta e inderogabile del tribunale, nulla [continua ..]

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6. La sentenza di fallimento, la sentenza di revoca e l’autonomia dei rispettivi “effetti”
Se dall’art. 22, 4° comma, L. Fall. discende l’efficacia meramente caducatoria della pronuncia di accoglimento resa dalla corte d’appello adìta ex artt. 18 o 22 L. Fall., ulteriori importanti corollari possono trarsi dalla combinazione tra i postulati sub b), c) e d). Anzitutto è da dire che la lettura in controluce dell’art. 18, 3° e 15° comma, e dell’art. 19, 1° comma, L. Fall. consente di affermare con sufficiente certezza che gli effetti del fallimento, benché rinvengano la propria fonte nella declaratoria d’in­solvenza, una volta prodottisi, da questa immediatamente si discostano, vivendo in piena autonomia e di vita propria, giacché, ieri come oggi, «la loro legittimità va verificata indipendentemente dai vizi che, inficiando il provvedimento di apertura, ne hanno provocato la caducazione» [42]. Per esser più chiari, se la pendenza del reclamo, stando [continua ..]

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7. L’efficacia caducatoria e conformativa della sentenza di revoca del fallimento
Per completare questo ormai lungo discorso, resta da compiere un altro passo. Sulla scorta di quanto detto, la profonda frattura che, come si spera di aver dimostrato, si viene a creare tra la sentenza di fallimento e gli effetti rispetto ai quali essa si pone come “matrice”, non soltanto osta a che quei medesimi effetti siano rimossi dal giudice che abbia disposto la revoca della decisione di primo grado, ma lascia pure dedurre come l’art. 119, ult. comma, L. Fall. operi contestualmente su due piani diversi e paralleli che, in quanto tali, non vanno confusi. Il provvedimento che, ribaltando la pronuncia resa dal giudice di prime cure, accerti che l’imprenditore è stato ingiustamente dichiarato fallito, ha la funzione (coerente con la natura, propria del reclamo, di «rimedio eliminatorio» [50] di rescindere la sentenza impugnata. Una funzione che esso assolve immediatamente, non rinvenendosi alcun impedimento a che – come [continua ..]

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8. Le condizioni necessarie e sufficienti per la rimozione degli effetti del fallimento
I punti saldi e imprescindibili della ricostruzione sin qui prospettata sono essenzialmente quattro: 1) la sorte della sentenza di fallimento non condiziona gli effetti dalla stessa prodotti; 2) l’esecuzione concorsuale va annoverata tra gli effetti della sentenza di fallimento; 3) i reclami ex artt. 18 e 22 L. Fall. hanno sempre natura rescindente; 4) il reintegro dell’imprenditore tornato in bonis nell’amministrazione e nella disponibilità del proprio patrimonio e il venir meno della liquidazione fallimentare costituiscono espressione della efficacia conformativa della sentenza di revoca del fallimento, efficacia che si produce nel momento in cui detta sentenza sia coperta dall’autorità del giudicato. Orbene, siccome la revoca della declaratoria di insolvenza si traduce – in uno alla «previsione di insufficiente realizzo» (art. 102 L. Fall.) e alla omologazione del concordato fallimentare – in una particolare [continua ..]

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9. L’incompatibilità dell’estinzione ex art. 393 c.p.c. col processo fallimentare
Giunti a questo punto, è finalmente possibile – avendo a disposizione gli strumenti indispensabili per esprimersi – affrontare il tema che ha ispirato queste pagine e verificare se, nel sistema così ricostruito, trovi ospitalità il meccanismo sanzionatorio stabilito dall’art. 393 c.p.c. ed applicato senza esitazione dal Supremo collegio nella pronuncia in commento. La norma de qua dispone che quando la Corte di legittimità cassi con rinvio una sentenza ma la riassunzione non sia stata effettuata tempestivamente oppure il giudizio di rinvio, benché instaurato in termini, sia successivamente andato perento, «l’intero processo si estingue». A differenza di quanto previsto dagli artt. 338, 358 e 387 c.p.c., che contemplano fattispecie nelle quali la mors litis determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, l’estinzione ex art. 393 c.p.c. travolge il processo ab initio, con salvezza – a [continua ..]

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10. Conclusioni
Ammoniva Satta, nella prima metà dello scorso secolo, che talvolta «la dottrina, se vuole conservare il suo credito, deve cercare in tutti i modi di giustificare la soluzione positiva, anche modificando le proprie vedute» [74]. Per quanto assai risalente, a me sembra che quell’avvertimento, nella misura in cui induce gli addetti ai lavori a ricercare soluzioni di buon senso, continui ad esser valido. E che la quaestio iuris in esame rappresenti, in tal senso, un buon banco di prova. Il lungo discorso sin qui svolto dovrebbe aver dimostrato che tutto cospira ad escludere l’operatività dell’art. 393 c.p.c. nel rito fallimentare e che la decisione in commento è il frutto di un vero e proprio abbaglio della Suprema corte la quale, probabilmente perché concentrata a ribadire l’applicabilità di quella disposizione a prescindere dalla natura prosecutoria o restitutoria del rinvio [75], ha prestato scarsa [continua ..]

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NOTE

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