Il Diritto Fallimentare e delle Società CommercialiISSN 0391-5239 / EISSN 2704-8055
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Sulla (in)applicabilità dell'art. 393 c.p.c. al processo fallimentare (di Mario Pio Fuiano, Ricercatore di Diritto processuale civile nell’Università degli Studi di Foggia)


Con la sentenza in epigrafe, la Suprema corte – chiamata a pronunciarsi per la prima volta sulla quaestio iuris – ha stabilito che l’art. 393 c.p.c. opera anche con riferimento al processo per la dichiarazione di fallimento. L’Autore, dopo aver analizzato criticamente le motivazioni poste a base della decisione, giunge ad affermare che il principio enunciato dalla Cassazione non è condivisibile, sia perché confligge con la natura non sostitutiva del reclamo e, più in generale, con la struttura del processo fallimentare; sia perché solleva dubbi di legittimità costituzionale.

On the (in)applicability of art. 393 c.p.c. to bankruptcy proceedings

With the judgement in indicated epigraph, The Supreme Court – for the first time ever called upon to rule on quaestio iuris – has stated that the art. 393 c.p.c. must also implement the bankruptcy trial. The author, after critically analysing the reasons for the decision, comes to the conclusion that the principle laid down by the Court is inadmissible, as it conflicts both with the not substitute nature of the claim and, more generally, with the whole structure of the bankruptcy trial. It also would raise doubts of constitutional legitimacy.

Keywords: bankruptcy procedure – proceedings dismissal – claim pursuant to art. 18 l.f.

CASSAZIONE CIVILE, SEZ. I, 10 febbraio 2020, n. 3022 Pres. A. Didone, Est. F. Terrusi (Art. 18 L. Fall.; art. 393 c.p.c.) Ove il provvedimento di rigetto del reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento sia cassato con rinvio e il processo non sia riassunto nel termine prescritto, in applicazione della regola generale di cui all’art. 393 c.p.c., l’intero processo si estingue e la sentenza di fallimento diviene inefficace. (Omissis). Con sentenza del 21 novembre 2011 il Tribunale di Roma, avendo ravvisato l’esistenza di una società di fatto (Omissis) e avendone accertata l’insolvenza, ne dichiarò il fallimento, esteso personalmente anche ai soci. La Corte d’appello di Roma respinse il reclamo ex art. 18 L. Fall. (Omissis). La sentenza venne impugnata (Omissis), con ricorso per cassazione, e la corte (a sezioni unite, (Omissis) dispose il rinvio della causa alla medesima corte d’appello (Omissis). Il processo non venne tuttavia riassunto, sicché T. chiese al giudice delegato di far annotare al registro delle imprese un provvedimento che desse atto delle conseguenze di tale circostanza, ex art. 393 c.p.c.; chiese inoltre di ordinare la cancellazione delle trascrizioni pregiudizievoli a proprio carico e a favore della massa, e di disporre il deposito del rendiconto del curatore ex art. 116 l. fall. Il giudice delegato respinse l’istanza e il decreto, reclamato ai sensi dell’art. 26 L. Fall., è stato confermato dal Tribunale di Roma (Omissis). – Con l’unico mezzo il ricorrente denunzia la nullità del provvedimento per violazione degli artt. 111, 132, 134 e 135 c.p.c., nonché degli artt. 336, 338, 393 e 653 c.p.c., 18 e 22 L. Fall., censurando l’affermazione del Tribunale secondo la quale al processo fallimentare non sarebbe applicabile la disciplina generale delle impugnazioni, e in particolare l’art. 393 c.p.c. nella parte in cui dispone che in caso di mancata riassunzione o di estinzione del giudizio di rinvio “l’intero processo di estingue”. – (Omissis) Il ricorso è fondato nel senso che segue. (Omissis). – (Omissis) La soluzione offerta dal Tribunale di Roma non è convincente e non può esser condivisa, in quanto basata su una forzatura dei dati normativi oltre che sul travisamento della natura attribuibile all’art. 393 c.p.c., nel contesto della distinzione tra regole processuali e principi derogabili per effetto di principi “altri”, da riscontrare a livello di sistema. Questo determina la cassazione del provvedimento. VII. – Non si ha difficoltà a validare la critica di parte ricorrente quanto al primo profilo denunciato, poiché in effetti l’argomento iniziale, speso dal decreto, facente leva sulla stabilizzazione della sentenza di fallimento fino alla revoca con sentenza passata in giudicato, non serve a [continua..]
SOMMARIO:

1. Premessa - 2. L’operatività dell’art. 393 c.p.c. in sede fallimentare: le ragioni della Cassazione - 3. Sulla (denegata) utilità del richiamo all’art. 119, ult. comma, L. Fall. - 4. La sentenza di fallimento e la sua impugnazione - 5. L’effetto (meramente) rescindente dei provvedimenti resi all’esito dei reclami ex artt. 18 e 22 L. Fall. - 6. La sentenza di fallimento, la sentenza di revoca e l’autonomia dei rispettivi “effetti” - 7. L’efficacia caducatoria e conformativa della sentenza di revoca del fallimento - 8. Le condizioni necessarie e sufficienti per la rimozione degli effetti del fallimento - 9. L’incompatibilità dell’estinzione ex art. 393 c.p.c. col processo fallimentare - 10. Conclusioni - NOTE


1. Premessa

La recentissima Cass. n. 3022/2020 desta particolare interesse perché affronta il tema dell’applicabilità al processo per la dichiarazione di fallimento della fattispecie estintiva disciplinata dall’art. 393 c.p.c. [1], una questione assai delicata che, se non ci s’inganna, giammai era stata trattata nelle aule del «palazzaccio» di piazza Cavour [2]. Prima di entrare in medias res, è però forse il caso di illustrare i fatti che hanno originato quella decisione. Nel caso di specie, la Corte d’appello di Roma aveva rigettato il reclamo ex art. 18 L. Fall. promosso avverso la sentenza con cui il tribunale della capitale, ravvisata l’esistenza (ed accertato lo stato d’insolvenza) di una società di fatto tra una pluralità di persone fisiche, aveva dichiarato il fallimento della compagine e dei suoi singoli soci. La pronuncia di secondo grado era impugnata dinanzi alla S.C. la quale, ritenuto che il gravato provvedimento presentasse «una chiara ed evidente lacuna motivazionale» in ordine alla circostanza controversa che tra i soci di fatto della impresa fallita fosse incluso il ricorrente principale, disponeva – limitatamente al rapporto processuale facente capo a quest’ultimo e ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (nel testo applicabile ratione temporis) – che la sentenza fosse cassata con rinvio [3]. Scaduti inutilmente i termini di riassunzione stabiliti dall’art. 392 c.p.c., il ricorrente principale (e vittorioso) nel giudizio di legittimità domandava al giudice delegato – invocando l’art. 393 c.p.c. – di prendere atto dell’intervenuta estinzione del processo e di dar corso agli adempimenti funzionali alla chiusura del fallimento. L’istanza era rigettata dal g.d. con decreto successivamente confermato dal Tribunale di Roma [4] che, all’esito del procedimento ex art. 26 L. Fall., disattendeva le doglianze sollevate col reclamo facendo leva sull’inapplicabilità dell’art. 393 c.p.c. In particolare, il collegio capitolino avvertiva come la norma de qua mal si conciliasse con la struttura del processo fallimentare e, per quanto si evince dalla lettura di Cass. n. 3022/2020, a sostegno del proprio orientamento adduceva che: i) «gli ef­fetti della sentenza di fallimento possono essere rimossi solo dal passaggio in giudicato della sentenza [continua ..]


2. L’operatività dell’art. 393 c.p.c. in sede fallimentare: le ragioni della Cassazione

La soluzione prospettata da Cass. n. 3022/2020 merita la massima attenzione e va analizzata partendo dalla illustrazione delle motivazioni giuridiche ad essa sottese. A dire della Corte regolatrice, il decreto collegiale del Tribunale di Roma (sulla cui legittimità era stata chiamata ad esprimersi) si fondava su «una forzatura dei dati normativi oltre che sul travisamento della natura attribuibile all’art. 393 c.p.c. nel contesto della distinzione tra regole processuali e principi derogabili per effetto di principi “altri”, da riscontrare a livello di sistema». Nello specifico, la Cassazione ha evidenziato come il ragionamento del giudice del reclamo non fosse condivisibile per un triplice ordine di ragioni. Anzitutto perché la quaestio iuris atteneva alla sopravvivenza della declaratoria di fallimento all’estinzione del processo per violazione dei termini di cui all’art. 392 c.p.c., e non già all’applicabilità del (diverso e pacifico) principio per il quale gli effetti di quella medesima sentenza possono esser rimossi, in ossequio all’art. 119, ult. comma, L. Fall., soltanto col passaggio in giudicato di un provvedimento che ne disponga la revoca. In secondo luogo perché il tribunale – sul presupposto che il reclamo ex art. 18 L. Fall. abbia ad oggetto la sentenza (e non già l’istanza) di fallimento – era pervenuto ad affermare che la mancata tempestiva riassunzione del giudizio di rinvio pro­duce effetti che si riverberano soltanto sul giudizio di impugnazione. Sicché, in virtù di tale ricostruzione (fondata sulla improvvida generalizzazione del meccanismo speciale, «frutto di una precisa scelta legislativa», disegnato dall’art. 22 L. Fall.), risultava compresso, del tutto apoditticamente, l’àmbito di operatività dell’art. 393 c.p.c. In terzo luogo perché l’art. 393 c.p.c. detta una regola processuale di indiscriminata applicazione, suscettibile di deroga esclusivamente «dinanzi a un’altra regola, speciale e prevalente, rinvenibile a livello di diritto positivo» che, però, nel caso di specie, non è dato rinvenire. Di qui, l’improponibilità del confronto – che il tribunale romano avrebbe inopinatamente posto a sostegno della propria interpretazione – fra l’impianto del rito monitorio (caratterizzato da [continua ..]


3. Sulla (denegata) utilità del richiamo all’art. 119, ult. comma, L. Fall.

Le critiche mosse nella sentenza in commento al collegio che ha redatto il decreto cassato sono assai severe e, a ben vedere, parecchio ingenerose. Siffatto rilievo si giustifica non solo e non tanto in ragione del pregevole impegno profuso prima dal g.d. e poi dal giudice del reclamo nel riordinare, in chiave dogmatica e sistematica, una disciplina ostica nella quale convergono meccanismi incerti ed insidiosi (che la Suprema corte, nella sua disamina, ha invece trascurato); quanto e soprattutto perché è da ritenere che il tribunale capitolino, seppur attraverso una motivazione claudicante, sia giunto a conclusioni esatte, a differenza di Cass. n. 3022/2020, il cui approdo sembra tutt’altro che persuasivo. A quest’ultimo proposito, la prima cosa che vien fatto di osservare è che l’im­pianto teorico che sorregge la sentenza de qua pare viziato sin dall’origine. Gli è che la Cassazione, allorquando afferma perentoriamente (e fors’anche un po’ troppo frettolosamente) che «l’argomento iniziale, speso nel decreto, facente le­va sulla stabilizzazione della sentenza di fallimento fino alla revoca con sentenza passata in giudicato, non serve a granché», dimostra di non aver colto uno spunto che, ad una approfondita riflessione, è di fondamentale importanza. È indubbio che, ai fini della questione giuridica in esame, un mero richiamo all’art. 119, ult. comma, L. Fall. sarebbe assolutamente improduttivo, non essendo di alcuna utilità mettere a confronto due fenomeni eterogenei quali la revoca della sentenza di fallimento (che si risolve, sotto un profilo squisitamente descrittivo, nella sostituzione di quest’ultima con una pronuncia di segno opposto resa all’esito di un’impugnazione insuscettibile di ulteriore gravame) e l’estinzione ex art. 393 c.p.c. (cui consegue il «generale travolgimento dell’attività processuale» [6], compresa la sentenza di primo grado che, anziché esser rimpiazzata da un’altra pronuncia, viene sic et simpliciter rimossa). Ma se l’art. 119, ult. comma, L. Fall. viene osservato dall’alto, distogliendo lo sguardo dal precetto ivi contenuto, per volgerlo – in una prospettiva più ampia – a ricercare le indicazioni che possono trarsi dal suo inserimento nel complesso mosaico di cui esso costituisce una tessera, ci si avvede [continua ..]


4. La sentenza di fallimento e la sua impugnazione

Dal momento che «non c’è qualificazione, che non sia stata assegnata alla sentenza dichiarativa di fallimento» [20], ai nostri fini sarebbe poco proficuo soffermarsi su questo tema, anche perché ogni tentativo di inquadramento sistematico risentirebbe inevitabilmente del «vizio metodologico di riferire alla sentenza dichiarativa nozioni sistematiche, sorte in ambienti normativi diversi» [21]. È invece maggiormente realistico e produttivo limitarsi ad ammettere come la sentenza di fallimento sia: – sotto il profilo genetico, un comune provvedimento giurisdizionale reso dal tribunale all’esito di un giudizio – celebrato nel rispetto dell’art. 111 Cost. [22] e a cognizione piena – svolto con le modalità dei procedimenti camerali ex art. 737 ss. c.p.c., non necessariamente contenzioso [23] e nell’àmbito del quale è riservato ampio spazio all’impulso officioso; – sotto il profilo dei contenuti, una pronuncia anfibia, siccome tesa: all’accerta­mento, in confronto del debitore, della ricorrenza dei presupposti soggettivi di fallibilità (art. 1 L. Fall.) e dello stato d’insolvenza (art. 5 L. Fall.) nonché dell’esisten­za, al momento della decisione, di debiti scaduti e non pagati per un ammontare complessivo non inferiore a trentamila euro (art. 15, ult. comma, L. Fall.) [24]; e, nel contempo, alla produzione di effetti (lato sensu costitutivi) processuali e sostanziali che investono il fallito (artt. 42-49 L. Fall.), i suoi creditori (artt. 51-63 L. Fall.), gli atti compiuti in pregiudizio di questi ultimi (artt. 64-70 L. Fall.) e i rapporti giuridici preesistenti facenti capo al fallito (artt. 72-83-bis L. Fall.), tutti funzionali ad un ulteriore e contestuale effetto d’indole schiettamente processuale che si concreta nel­l’immediata apertura di un’esecuzione forzata collettiva diretta alla soddisfazione (tramite la liquidazione dell’attivo d’impresa) dei creditori ammessi al passivo concorsuale [25]. Un’espropriazione che, secondo la communis opinio, comincia proprio con la sentenza di fallimento [26] (il cui deposito, del resto, è dalla giurisprudenza equiparato, quoad effecta, al perfezionamento del pignoramento) [27] e che è destinata a chiudersi nelle quattro ipotesi dettagliatamente descritte [continua ..]


5. L’effetto (meramente) rescindente dei provvedimenti resi all’esito dei reclami ex artt. 18 e 22 L. Fall.

Astenendoci dal prender posizione sulla controversa natura – pienamente o parzialmente devolutiva – del reclamo [31] (tema attualissimo e dai ragguardevoli risvolti teorico-pratici ma, nell’economia di queste pagine, per nulla significativo), è preferibile soffermarsi sugli importanti corollari che derivano dai precetti testé elencati. In primis, dal postulato sub a) emerge con chiarezza la volontà del legislatore di attribuire in via esclusiva al tribunale la competenza a dichiarare il fallimento [32]. Sennonché, tale essendo la ratio sottesa all’art. 22, 4° comma, L. Fall., è da dire che questa norma, letta in un’ottica dinamica, evidenzia la consapevole scelta (operata sin dal 1942) di costruire il reclamo avverso il rigetto dell’istanza di fallimento come un’impugnazione rescindente [33]. Pur preservando, in subiecta materia, la competenza assoluta e inderogabile del tribunale, nulla avrebbe impedito ai conditores di regolarsi diversamente e prevedere che il giudizio de quo ricalcasse il modello disegnato dagli artt. 339-359 c.p.c. [34]. Quella stessa scelta risulta poi confermata e rinvigorita dal legislatore del 2006 che, nell’introdurre ex novo l’art. 9-bis L. Fall., ha sostanzialmente equiparato (almeno ai fini della translatio iudicii prevista dall’art. 50 c.p.c. e degli effetti ad essa collegata) la sentenza di fallimento resa dal tribunale sfornito di competenza e l’atto introduttivo della causa incardinata dinanzi a giudice incompetente [35]. Offrendo così, per quel che sembra, un solido argomento per affermare che quella sentenza – non solo e non tanto perché mette capo a un giudizio, ma anche e soprattutto perché consente la prosecuzione del processo ed assicura, senza soluzione di continuità, la permanenza degli effetti ad esso legati – giammai può esser sostituita da qualsivoglia altra decisione emessa in sede di gravame. Dovendosi altresì escludere che il carattere di un’impugnazione sia suscettibile di mutare secundum eventum litis, occorre logicamente dedurre che la corte d’ap­pello (a nulla rilevando se il reclamo costituisca o no un rimedio devolutivo) [36] si pronuncia con un provvedimento privo di effetto sostitutivo [37] sia quando è chiamata a riformare il decreto di reiezione dell’istanza di fallimento, sia [continua ..]


6. La sentenza di fallimento, la sentenza di revoca e l’autonomia dei rispettivi “effetti”

Se dall’art. 22, 4° comma, L. Fall. discende l’efficacia meramente caducatoria della pronuncia di accoglimento resa dalla corte d’appello adìta ex artt. 18 o 22 L. Fall., ulteriori importanti corollari possono trarsi dalla combinazione tra i postulati sub b), c) e d). Anzitutto è da dire che la lettura in controluce dell’art. 18, 3° e 15° comma, e dell’art. 19, 1° comma, L. Fall. consente di affermare con sufficiente certezza che gli effetti del fallimento, benché rinvengano la propria fonte nella declaratoria d’in­solvenza, una volta prodottisi, da questa immediatamente si discostano, vivendo in piena autonomia e di vita propria, giacché, ieri come oggi, «la loro legittimità va verificata indipendentemente dai vizi che, inficiando il provvedimento di apertura, ne hanno provocato la caducazione» [42]. Per esser più chiari, se la pendenza del reclamo, stando all’art. 18, 3° comma, L. Fall., non intacca gli effetti correlati alla gravata pronuncia e se, soprattutto, la rimozione della sentenza di fallimento, ex art. 18, 15° comma, L. Fall., non travolge gli atti compiuti dagli organi concorsuali (a meno che di quegli stessi atti non sia dichiarata l’illegittimità a séguito dell’espe­rimento dei rimedi offerti dagli artt. 26 e 36 L. Fall.) [43], è inevitabile desumere che il rapporto intercorrente tra la «matrice degli effetti del fallimento» [44] e questi ultimi sia meramente genetico, sì che la sorte della prima non influisce in alcun modo sulla efficacia dei secondi. Ma vi è di più. Si è fatto cenno all’art. 119, ult. comma, L. Fall. che stabilisce come, revocata la declaratoria di fallimento, «le disposizioni esecutive» utili ad attuarne gli effetti debbano esser impartite (successivamente al passaggio in giudicato della pronuncia caducatoria) in via esclusiva dal tribunale. Volendo individuare quali siano gli effetti destinati ad essere regolati dalle «disposizioni esecutive» de quibus, occorre giocoforza ragionare a contrariis. È fuor di dubbio che essi non possano coincidere, neppure parzialmente, con gli «effetti degli atti legalmente compiuti dagli organi della procedura» (disciplinati ex professo dall’art. 18, 15° comma, L. Fall.) o realizzati contra legem (la sorte dei [continua ..]


7. L’efficacia caducatoria e conformativa della sentenza di revoca del fallimento

Per completare questo ormai lungo discorso, resta da compiere un altro passo. Sulla scorta di quanto detto, la profonda frattura che, come si spera di aver dimostrato, si viene a creare tra la sentenza di fallimento e gli effetti rispetto ai quali essa si pone come “matrice”, non soltanto osta a che quei medesimi effetti siano rimossi dal giudice che abbia disposto la revoca della decisione di primo grado, ma lascia pure dedurre come l’art. 119, ult. comma, L. Fall. operi contestualmente su due piani diversi e paralleli che, in quanto tali, non vanno confusi. Il provvedimento che, ribaltando la pronuncia resa dal giudice di prime cure, accerti che l’imprenditore è stato ingiustamente dichiarato fallito, ha la funzione (coerente con la natura, propria del reclamo, di «rimedio eliminatorio» [50] di rescindere la sentenza impugnata. Una funzione che esso assolve immediatamente, non rinvenendosi alcun impedimento a che – come appurato da un attento studioso in un denso lavoro monografico – le disposizioni codicistiche dettate in tema di esecuzione provvisoria (e, specularmente, d’inibitoria) si applichino pure alle sentenze di accertamento [51]. Sicché, nel caso di specie, l’accoglimento dell’impugnazione ex art. 18 L. Fall. o la cassazione della pronuncia di rigetto del reclamo medesimo non sono ovviamente utilizzabili come titolo esecutivo, difettando l’esperibilità di un’esecuzione forzata. Tuttavia, esse spiegano efficacia tra le parti, imponendo agli organi concorsuali di agire con particolare prudenza nell’espletamento delle proprie funzioni e di esimersi dall’assumere iniziative che, arrecando pregiudizi irreversibili al patrimonio del fallito, li esporrebbero – qualora la sentenza di revoca passasse in giudicato – al rischio di rispondere personalmente (quantomeno ai sensi dell’art. 96, 2° comma, c.p.c.) per eventuali danni arrecati all’imprenditore tornato in bonis [52]. La prospettata visione pare coerente col tenore dell’art. 19 L. Fall. e con le vicende che hanno portato alla sua odierna formulazione. In proposito, è utile rammentare che, dopo la novella del 2006, la norma de qua consentiva alla corte d’appello di sospendere, su istanza di parte e in pendenza del giudizio di appello o di cassazione, la liquidazione dell’attivo. Con la riforma del 2007 è stato [continua ..]


8. Le condizioni necessarie e sufficienti per la rimozione degli effetti del fallimento

I punti saldi e imprescindibili della ricostruzione sin qui prospettata sono essenzialmente quattro: 1) la sorte della sentenza di fallimento non condiziona gli effetti dalla stessa prodotti; 2) l’esecuzione concorsuale va annoverata tra gli effetti della sentenza di fallimento; 3) i reclami ex artt. 18 e 22 L. Fall. hanno sempre natura rescindente; 4) il reintegro dell’imprenditore tornato in bonis nell’amministrazione e nella disponibilità del proprio patrimonio e il venir meno della liquidazione fallimentare costituiscono espressione della efficacia conformativa della sentenza di revoca del fallimento, efficacia che si produce nel momento in cui detta sentenza sia coperta dall’autorità del giudicato. Orbene, siccome la revoca della declaratoria di insolvenza si traduce – in uno alla «previsione di insufficiente realizzo» (art. 102 L. Fall.) e alla omologazione del concordato fallimentare – in una particolare modalità di chiusura della procedura fallimentare, deve affermarsi che l’esecuzione collettiva cessa soltanto allorquando: i) si verifichi uno dei casi elencati nell’art. 118, 1° comma, L. Fall.; ii) acquisti stabilità il provvedimento che accerta l’ingiustizia della sentenza di fallimento o la sua nullità per vizi processuali [57]; iii) divenga definitivo il decreto con cui il tribunale dispone, ex art. 102, 1° comma, L. Fall., di «non farsi luogo al procedimento di accertamento del passivo»; iv) non sia più impugnabile il decreto di omologazione del concordato fallimentare. Ciò significa che il processo disciplinato dagli art. 15 ss. L. Fall. è congegnato in modo da concludersi, quando si sia avuta l’apertura della liquidazione forzata, con una decisione inimpugnabile sul merito dell’istanza ex art. 6 L. Fall. oppure sulla validità della sentenza di primo grado. Tertium non datur. Per la semplice ragione che in qualunque altra situazione non si verificherebbe la condicio sine qua non perché siano fornite «le disposizioni esecutive» funzionali alla estinzione della espropriazione collettiva. Disposizioni che il tribunale è tenuto a somministrare – al passaggio in giudicato della revoca del fallimento – con autonomo provvedimento oppure – quando si verifichino le circostanze previste agli artt. 102, 1° comma, 118, 1° comma, nn. [continua ..]


9. L’incompatibilità dell’estinzione ex art. 393 c.p.c. col processo fallimentare

Giunti a questo punto, è finalmente possibile – avendo a disposizione gli strumenti indispensabili per esprimersi – affrontare il tema che ha ispirato queste pagine e verificare se, nel sistema così ricostruito, trovi ospitalità il meccanismo sanzionatorio stabilito dall’art. 393 c.p.c. ed applicato senza esitazione dal Supremo collegio nella pronuncia in commento. La norma de qua dispone che quando la Corte di legittimità cassi con rinvio una sentenza ma la riassunzione non sia stata effettuata tempestivamente oppure il giudizio di rinvio, benché instaurato in termini, sia successivamente andato perento, «l’intero processo si estingue». A differenza di quanto previsto dagli artt. 338, 358 e 387 c.p.c., che contemplano fattispecie nelle quali la mors litis determina il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, l’estinzione ex art. 393 c.p.c. travolge il processo ab initio, con salvezza – a mente dell’art. 310 c.p.c. – dell’azione, delle sentenze non definitive di merito (munite di stabilità) e delle ordinanze regolatrici della competenza (nonché, secondo un indirizzo pressoché consolidato, della giurisdizione) [61] pronunciate in corso di causa. In sintesi, com’è stato autorevolmente sottolineato con efficacia, la perenzione del giudizio di rinvio «non fa “rivivere” né – com’è ovvio – la sentenza cassata, né, quando oggetto della cassazione era stata una sentenza di appello, la sentenza di pri­mo grado, già definitivamente sostituita (tanto se riformata, quanto se confermata) dalla sentenza di appello annullata dalla Corte suprema» [62]. La precisazione testé riportata è assai preziosa in quanto pone nella giusta evidenza come la «catastrofe» [63] prospettata dall’art. 393 c.p.c. sia legata a doppio filo al «c.d. effetto sostitutivo necessario» [64] che contraddistingue l’appello quale mezzo di gravame avente «come normale obiettivo non la mera eliminazione della sentenza impugnata, bensì sempre e direttamente la pronuncia di una nuova decisione sul merito della causa, la quale prende in ogni caso il posto della sentenza di primo grado, pur quando sia di contenuto identico (cioè quando l’appello sia stato ritenuto [continua ..]


10. Conclusioni

Ammoniva Satta, nella prima metà dello scorso secolo, che talvolta «la dottrina, se vuole conservare il suo credito, deve cercare in tutti i modi di giustificare la soluzione positiva, anche modificando le proprie vedute» [74]. Per quanto assai risalente, a me sembra che quell’avvertimento, nella misura in cui induce gli addetti ai lavori a ricercare soluzioni di buon senso, continui ad esser valido. E che la quaestio iuris in esame rappresenti, in tal senso, un buon banco di prova. Il lungo discorso sin qui svolto dovrebbe aver dimostrato che tutto cospira ad escludere l’operatività dell’art. 393 c.p.c. nel rito fallimentare e che la decisione in commento è il frutto di un vero e proprio abbaglio della Suprema corte la quale, probabilmente perché concentrata a ribadire l’applicabilità di quella disposizione a prescindere dalla natura prosecutoria o restitutoria del rinvio [75], ha prestato scarsa attenzione alla pericolosità di ciò che si apprestava a sostenere. È da ritenere, infatti, come una interpretazione prudente, di ampio respiro e in linea con i precetti fondamentali imponga di affermare che nel processo fallimentare, in caso di cassazione ex art. 383, 1° e 2° comma, c.p.c., alla violazione del termine stabilito dall’art. 392 c.p.c. e alla perenzione del giudizio di rinvio consegue non già l’estinzione dell’«intero processo», bensì – in applicazione dell’art. 338 c.p.c. – il passaggio in giudicato della sentenza impugnata. In questo modo, per un verso, le parti coinvolte nel giudizio di gravame sarebbero maggiormente responsabilizzate, atteso che gli effetti dell’estinzione davvero si produrrebbero in danno di chi ha tenuto una condotta colpevolmente omissiva; dall’altro, sarebbe fatto comunque salvo l’effetto sospensivo della prescrizione dei diritti azionati dai creditori concorsuali, effetto che si conserva anche col passaggio in giudicato della sentenza di revoca [76]. Viceversa, nel caso contemplato dall’art. 383, 3° comma, c.p.c., stante la nullità della sentenza di primo grado e degli atti intermedi, non vi sarebbe alcun ostacolo a che la Corte regolatrice, anziché rimettere la causa al giudice di primo grado (provvedimento cui, sovente, nessuno avrebbe interesse) [77], pronunciasse – pervenendo al medesimo [continua ..]


NOTE