Lo scritto esamina il tema delle ristrutturazioni di gruppo, in particolare attraverso il nuovo concordato preventivo nel Codice della crisi e dell’insolvenza dell’Impresa. Dapprima si prende in esame la operatività del potere di direzione e coordinamento anche nella fase di crisi e di insolvenza dell’impresa. In seguito si analizzano le nuove norme contenute nel Codice della crisi, in relazione ai limiti posti in via generale dall’ordinamento, ed alla possibilità di superarli attraverso i vantaggi compensativi nella nuova disciplina. Si evidenzia come, in assenza di tali norme, non sarebbe possibile assembleare proposte concordatarie di gruppo che pianifichino di disporre di attivi di singole società in favore di altre società componenti il gruppo.
The paper examines the topic of group restructuring, in particular through the new concordato preventivo in the Italian Code of Crisis and Insolvency. First, the operation of the power of direction and coordination is examined even in the crisis and insolvency phase of the company. The new rules contained in the Crisis Code are then analyzed, in relation to the limits set in general by the legal system, and the possibility of overcoming them through the compensatory advantages in the new discipline. It should be noted that, in the absence of these rules, it would not be possible to set group arrangement proposals that plan to dispose of the assets of specific companies in favor of other companies making part of the same group.
Keywords: Group, Direction and coordination, Crisis, Concordato preventivo, Compensatory advantages.
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1. Premessa - 2. La direzione e coordinamento nella regolazione concorsuale della crisi - 3. (Segue): profili di doverosità della scelta regolatoria “di gruppo” - 4. Il vantaggio compensativo nella fase di vita in bonis dell’impresa - 5. Prospettive di consolidamento sostanziale nella nuova disciplina contenuto nel Codice della crisi? - 6. Le compensazioni concordatarie: struttura e funzione - 7. La distribuzione del surplus concordatario “di gruppo” - NOTE
Uno degli aspetti forse più interessanti della disciplina contenuta nel “Codice della crisi e dell’insolvenza d’impresa” (D.Lgs. n. 14/2019, di seguito solo “CCII”) è costituito dalle norme sui concordati di gruppo. L’innovazione risolve un problema giuridico e pratico di notevole portata, sdoganando il deposito di ricorsi “unitari”, e rimuovendo alcuni limiti di sistema che avevano indotto la giurisprudenza, anche di legittimità, a porre al “bando” (anche con affermazioni assai risolute) soluzioni esplicitamente dirette a regolare la crisi di gruppo in un contesto procedimentale “armonizzato” [1]; in particolare risulta estremamente opportuno aver fissato i limiti che il sistema pone a tali composizioni della crisi, che intendono sfruttare le potenzialità dell’agglomerato societario. Il concordato “di gruppo” non era e non è infatti in realtà di per sé in contrasto con l’ordinamento in vigore, ma lo diviene nella misura in cui si pretenda di “derogare” a ben determinate norme imperative; dunque occorreva che una modifica legislativa intervenisse a sancire quali fossero i presupposti possibili che legittimino tali deroghe, e quali i confini [2]. L’introduzione di tali disposizioni nel CCII costituisce comunque un’occasione ghiotta per riflettere sulla portata di taluni principi generali, che interessano non solo e non tanto il diritto concorsuale, ma anche il diritto societario, in particolare dei gruppi. Basti solo pensare all’utilizzo “angolare” che il CCII, con qualche chiarimento contenuto nel c.d. Primo Decreto Correttivo (D.Lgs. n. 147/2020), fa in subiecta materia della categoria dei “vantaggi compensativi”, circostanza questa che non può non sorprendere l’interprete. Il recepimento infatti potrebbe quasi sembrare frutto di una indebita sovrapposizione di concetti, là dove il diritto concorsuale è il luogo ove si attua la responsabilità patrimoniale (art. 2740 c.c.), mentre i vantaggi compensativi sono sempre stati trattati con riferimento alla responsabilità civile (cui viene appunto ricondotta la disciplina di cui all’art. 2497 c.c.). In realtà, è forse anche grazie al CCII che i tempi sono maturi per ascrivere definitivamente la ricostruzione dell’art. 2497 [continua ..]
L’affermazione dell’efficacia perdurante della direzione e coordinamento, pur nella vigenza di una procedura concorsuale, suscita sulle prime, come si accennava poc’anzi, un senso di vertigine. La struttura “fallimentocentrica” del nostro sistema concorsuale tradizionale non può infatti non suggerire, di primo acchito, l’idea di una incompatibilità ontologica fra l’idea “archetipica” di procedura concorsuale e la tipica relazione di potere che consente il governo del gruppo societario. Di fronte al fallimento, infatti, l’idea stessa della direzione e coordinamento si dissolve, e viene inevitabilmente meno [5], e questo tanto rispetto alla società “dirigente”, quanto rispetto alla eterodiretta. Lo spossessamento infatti, con la sostituzione dell’imprenditore nella amministrazione del patrimonio, non può che determinare l’interruzione di quella relazione di potere. Di sicuro la società fallita non può infatti più rivestire alcuno di tali ruoli; e questo benché i propri organi formalmente rimangano in carica, con competenze tuttavia fortemente falcidiate, se non quasi annichilite. Il problema in questi casi, in particolare quando l’attivo fallimentare comprenda anche partecipazioni di controllo in società facenti parte di un agglomerato in precedenza “governato” dalla società fallita, è semmai quello di capire se, nell’eventualità in cui la curatela decida di esercitare i poteri di socio in modo da “influire” sulla gestione delle società detenute, vi sia ancora modo e senso per parlare di “direzione e coordinamento”. A me sembra che, anche se la società fallita non può più essere autonomamente il “soggetto” responsabile dell’indicazione delle strategie di gruppo, essendo stata infatti ormai recisa quella relazione di potere tipica, non sia solo per ciò da escludere che alla stessa possa essere comunque imputata formalmente l’attività oggettivamente conforme alla direzione e coordinamento esercitata dalla Curatela, così come al fallito si imputano non soltanto gli atti, ma la stessa attività di impresa proseguita dal curatore ex art. 104 L. Fall. [6]. In realtà però il discorso mi pare dover essere più complesso: da un lato non [continua ..]
Il CCII sancisce ora l’intrapresa dell’iniziativa concordataria “aggregata” (a prescindere dalla natura unitaria o soltanto convergente dei piani) come il frutto di una scelta discrezionale del debitore. La “libertà” della decisione non deve comunque essere percepita come indiscriminata: l’opzione costituisce una facoltà nel contesto del diritto concorsuale oggi vigente [15], ove il sistema non concepisce mai come “obbligatorie” quelle soluzioni regolatorie, più complesse ma inevitabilmente più “rischiose”, che pur possono in astratto massimizzare l’interesse dei creditori (si pensi allo stesso concordato con continuità, arg. ex art. 186-bis L. Fall.); non sembra insomma esistere un canone, imposto dal diritto concorsuale attualmente in vigore, per cui il debitore debba comunque scegliere la soluzione programmaticamente più favorevole per i creditori, pur se questa presenti profili di rischio qualitativamente superiori rispetto a quella “liquidatoria semplice”; in breve, non sarà mai inammissibile la scelta della soluzione “liquidatoria” per la società monade, come pure di quella “atomistica”, “autonoma”, per la società appartenente al gruppo, anche se prospetticamente meno funzionale all’interesse della Massa; laddove sarà invece sempre preclusa la scelta opposta, ove l’esito liquidatorio o “atomistico” possa al contrario ritenersi ragionevolmente pre-valente. Sul piano del diritto societario tuttavia i presupposti ed i canoni per valutare la “doverosità” della scelta regolatoria possono parzialmente divergere, anche se ovviamente quello che il diritto concorsuale vieta il diritto societario non potrà mai facoltizzare o peggio imporre. Non mi sembra tuttavia che neanche le regole sostanziali che sovraintendono alla gestione della società possano imporre comunque di tentare la soluzione “complessa” (con continuità o “aggregata”), probabilmente più rischiosa anche per i creditori [16], ove essa pure si presenti prevedibilmente come pre-valente (in termini di recovery ratio) rispetto a quella più “semplice” (liquidatoria od atomistica). O almeno, non mi pare che ciò possa costituire fonte senz’altro di un obbligo attivo di [continua ..]
La redazione dell’ultimo periodo dell’art. 2497 c.c. [33] ha sicuramente comportato il recepimento da parte del Legislatore del 2003 della c.d. teoria dei vantaggi compensativi, elaborata da una dottrina autorevole [34], ed oggetto di sostanziale adesione da parte della S.C., in più di un arresto [35]. La esatta portata della “traduzione” in norma di tale orientamento è peraltro ancora assai discussa; anche il modo in cui la giurisprudenza intende il senso del disposto non è integralmente ed agevolmente decifrabile, e questo anche perché le ultime pronunzie della S.C. esaurientemente motivate in subiecta materia fanno ancora applicazione delle vecchie norme, anche se sono state pubblicate quando la riforma era già vigente. È noto che si contendono, da sempre, il campo due ipotesi ricostruttive [36]: una, la c.d. tesi ragionieristica, per cui l’ammontare della compensazione deve essere almeno pari al valore del pregiudizio cui l’operazione assoggetta la eterodiretta, in termini rigorosamente quantitativi; l’altra per cui l’apprezzamento della compensazione potrebbe anche rivestire valore “qualitativo”, e non corrispondere esattamente all’entità economica del pregiudizio sofferto [37]. In ogni caso sembra che sussista una certa convergenza in ordine al fatto che la compensazione debba essere specifica, concreta ed effettiva, sicché vantaggi collegati alla mera appartenenza al gruppo non potrebbero mai essere tenuti in considerazione al fine di rinvenire delle compensazioni valide. Inoltre i benefici possono essere ricavati o direttamente dallo scambio che cagiona il pregiudizio, oppure trovare sede in altre operazioni, che abbiano come terminali soggettive altre società, anche differenti da quelle che si avvantaggiano in via immediata dall’operazione pregiudizievole [38]. A me sembra comunque che debba rifuggirsi dalla portata potenzialmente “esoterica” della formula, e dalla tentazione di fornire un approccio esegetico che prescinda dalle norme, andando cioè alla ricerca di una ricostruzione del concetto di stampo meramente “ideologico”, e non già fondato su dati oggettivi [39]. Anche se la formulazione della norma non è sicuramente esente da elementi equivoci, a me sembra che il disposto regoli due differenti forme di vantaggio [continua ..]
Le norme del CCII sui concordati “di gruppo”, cui più volte ho fatto cenno in precedenza, benché anch’esse non sempre esenti, già nell’architettura, da dubbi circa la loro effettiva portata [57], attirano sicuramente l’attenzione là dove indicano che “il piano o i piani possono altresì prevedere operazioni contrattuali e riorganizzative, inclusi i trasferimenti di risorse infragruppo” (art. 285, 2° comma). L’art. 3 della L. n. 155/2017, d’altro canto, conteneva un’indicazione nel senso della redazione del piano unitario “eventualmente attraverso operazioni contrattuali e riorganizzative intragruppo funzionali alla continuità aziendale e al migliore soddisfacimento dei creditori” (art. 3, 2° comma, lett. f). Se allora comune è il riferimento, da un lato, alla esigenza ripetuta di mantenere “separate le masse attive e passive”, dall’altro al criterio “pigliatutto” del “miglior soddisfacimento dei creditori”, l’elemento distonico è costituito dall’indicazione solo nel CCII dei “trasferimenti di risorse infragruppo”. L’interpretazione di tale ultimo elemento, dunque, e del suo rapporto con il principio della separazione delle masse, nonché con la prima parte dell’enunciato (che riprende il testo della norma direttiva), acquisisce una rilevanza apicale al fine di qualificare il sottosistema normativo, ed anche la sua compatibilità con la legge delega. Dalla soluzione di tale interrogativo discendono, come è facilmente intuibile, non poche conseguenze pratiche in ordine al possibile contenuto della soluzione regolatoria “aggregata”. Due sono gli approcci metodologici che sino ad oggi si sono affacciati in letteratura: quello per cui il disposto dovrebbe essere oggetto di interpretazioni “restrittive”, tali da renderlo sicuramente compatibile con la legge delega [58], anche ricorrendo all’esempio sistematico di altri settori speciali (quello delle crisi bancarie: art. 69-duodecies TUB); e l’altro per cui invece si dovrebbe piuttosto enfatizzare la novità in chiave di superamento di limiti in realtà ritenuti non sistematici, ma fondati su letture assunte come riduttive e su asseriti preconcetti ideologici [59]. Se il primo modello interpretativo sembra poter [continua ..]
Il nocciolo della questione, come ho già accennato, potrebbe risiedere nell’esame dei rapporti fra MSC, “compensazioni” e “operazioni”. L’unica possibilità di fornire una ricostruzione plausibile di questo comparto normativo, a mio avviso, è quella di inquadrare i termini giuridici che lo compongono in modo che il MSC costituisca lo scopo-fine della disciplina, la compensazione lo scopo-mezzo, e le operazioni lo strumento giuridico operativo [63]. Quello che nella vita ordinaria dell’impresa in bonis può apparire “normale”, come appunto ritrarre dal gruppo delle opportunità, nella fase di crisi, stante la enfasi così accresciuta sul livello di “rischio” concretamente assumibile, può richiedere infatti maggiori cautele, esattamente come avviene per i piani concordatari con continuità aziendale, ai sensi dell’art. 186-bis L. Fall. Un modello regolatorio della crisi di gruppo così concepito, in assenza di qualche correttivo, avrebbe tuttavia rischiato di essere poco incentivante, innalzando parecchio lo “scalino normativo”. Il riferimento normativo esplicito ai vantaggi compensativi prima, e alle “operazioni” di cui al 2° comma dell’art. 285 poi, svolge dunque in realtà una funzione non già “limitativa” delle possibilità operative concesse nella regolazione di gruppo, come potrebbe a prima vista sembrare, bensì ampliativa. L’esigenza che tutte le società coinvolte nel processo ricevano dalla regolazione di gruppo qualcosa in più di quello che si potrebbe ragionevolmente progettare attraverso un piano “autonomo” potrebbe invero essere soddisfatta, in teoria e quando possibile, anche soltanto attraverso i benefici della pianificazione “aggregata”, cioè valorizzando all’interno del gruppo quelle situazioni, quelle opportunità, che una progettazione complessiva talvolta consente di cogliere in tali circostanze; senza cioè “strumentalizzare” il patrimonio di nessuna delle cellule. Ad es. non è infrequente che il realizzo sul mercato del valore “aggregato” di più beni, appartenenti a società diverse, possa assicurare un quid pluris rispetto alla vendita atomistica; ma talvolta è possibile che la stessa continuazione [continua ..]
Come ho già avuto modo di accennare, il c.d. surplus di gruppo, id est le utilità patrimoniali che scaturiscono dall’estrazione all’interno del gruppo di opportunità non possibili sulla base di mere relazioni “di mercato”, viene per lo più ritenuto liberamente destinabile e distribuibile nella fase di vita “ordinaria” del gruppo [83]. Ciò si giustifica colla circostanza per cui l’interesse perseguito dagli amministratori, in questa fase, è quello lucrativo dei soci, e libera è la gestione del patrimonio della singola società, in ossequio ai dettami della BJR; ampia è dunque la sfera delle possibilità di “destinazione” di tali vantaggi patrimoniali, destinazione che può avvenire anche liberamente in favore di una o più delle altre società del gruppo, purché semplicemente ciò si giustifichi nell’ambito di una impostazione strategica complessiva che comunque, anche se solo indirettamente, ed in una prospettiva temporale non immediata, sia rivolta pur sempre al perseguimento dell’obiettivo lucrativo “tipico”. È intuitivo pertanto che nell’ambito delle regolazioni della crisi di gruppo, invece, la conclusione non possa essere mantenuta. In tale contesto, infatti, come si è già più volte rilevato, l’interesse dei creditori diviene la funzione che orienta la gestione della società, e la BJR cessa di operare, risultando la sfera del “rischio” assumibile ormai eterodeterminata [84]. Anche quanto alle sfaccettature del problema della sua destinazione possono presentarsi ipotesi differenti: l’interrogativo è allora tanto se il surplus possa essere impiegato al fine di soddisfare creditori in deroga all’ordine “legale” delle cause di prelazione, quanto se esso possa essere destinato al servizio degli obiettivi del piano concordatario ma a vantaggio “diretto” di altre società del gruppo, piano ovviamente “interferente”. Il problema dell’utilizzo in deroga all’ordine legale si intreccia ovviamente col tema, di carattere più generale, circa la possibilità di operare gli impieghi del surplus concordatario, a prescindere dal contesto di gruppo. In particolare, il nostro problema presenta le più omologie più evidenti col [continua ..]