Il Diritto Fallimentare e delle Società CommercialiISSN 0391-5239 / EISSN 2704-8055
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


La responsabilità degli amministratori non esecutivi e degli organi di controllo con riguardo agli assetti societari (di Lorenzo De Angelis, Ordinario f.r. di Diritto commerciale nell’Università “Ca’ Foscari” di Venezia)


l presente articolo illustra i doveri degli organi delegati e soprattutto degli amministratori non esecutivi e dei sindaci delle società per azioni e le rispettive responsabilità per la violazione di tali doveri, alla luce della riforma della disciplina societaria operata con il D.Lgs. n. 6/2003, come ulteriormente completata dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. n. 14/2019 e successive modificazioni).

 

The liability of both non-executive directors and statutory auditors referring to the internal corporate organization

This paper points out the duties of the executive and non-executive directors and statutory auditors of the companies limited by shares and the respective liabilities in case of breach of such duties in the light of the corporate law reform introduced by the legislative decree no. 6/2003, as subsequently implemented by the Code of business crisis and insolvency (legislative decree no. 14/2019 and following modifications).

 

SOMMARIO:

1. La disciplina della materia nel Codice civile del 1942 - 2. La riforma organica del 2003. Il dovere di diligenza: la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico - 3. (Segue): la diligenza richiesta dalle specifiche competenze degli amministratori - 4. L’ablazione del dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione. La responsabilità per colpevole inerzia in caso di conoscenza di fatti pregiudizievoli - 5. I doveri degli amministratori delegati e deleganti nel novellato art. 2381 c.c. - 6. Il dovere di agire in modo informato - 7. Il ruolo del presidente del consiglio d’amministrazione - 8. La compresenza di una pluralità di amministratori con deleghe - 9. La riforma del sistema della responsabilità è stata completata dalle nuove norme in tema di interessi degli amministratori, di operazioni con parti correlate e di obblighi in caso di scioglimento della società. La responsabilità solidale tra tutti gli amministratori sulla via del tramonto - 10. L’entità del danno e l’onere dimostrativo incombente all’attore - 11. Cenno sulla prospettazione della responsabilità degli amministratori non esecutivi nelle società esercenti l’impresa bancaria - 12. L’integrazione dell’art. 2086 c.c. e le nuove norme introdotte nel Codice civile dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza - NOTE


1. La disciplina della materia nel Codice civile del 1942

Il Codice civile del 1942 non distingueva nettamente, ai fini della responsabilità, le posizioni degli amministratori deleganti e degli amministratori delegati delle socie­tà per azioni. L’art. 2392, 1° comma, nella formulazione previgente, infatti, stabiliva che: «Gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo con la diligenza del mandatario, e sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di uno o più amministratori». Tuttavia la responsabilità dei membri del comitato esecutivo o dell’amministra­tore delegato o degli amministratori delegati per le «attribuzioni proprie» loro devolute dal consiglio di amministrazione era, in concreto, tutt’altro che esclusiva in virtù della disposizione del 2° comma dello stesso articolo, a mente del quale: «In ogni caso gli amministratori [senza alcuna distinzione fra delegati e deleganti] sono solidalmente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione o se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto po­tevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose». Sulla base di questa disposizione venivano coinvolti con il vincolo della solidarietà nella responsabilità per mala gestio nei confronti della società tanto i membri del comitato esecutivo o gli amministratori delegati per avere commesso con colpa atti di gestione produttivi di danno, quanto tutti gli altri amministratori per l’omis­sione del dovere di diligente vigilanza sul generale andamento della gestione [1]. In sostanza, per effetto di questa disposizione, tutti gli amministratori – delegati e deleganti – venivano onerati della medesima responsabilità non solo per avere causato danno alla società mediante il loro illegittimo comportamento, ma anche per essersi resi colpevoli di una mancata o insufficiente o negligente attività di «vigilanza sul generale andamento della gestione» [2]. Ciò, a meno che qualcuno tra essi, che fosse immune da colpa, avesse «fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata [continua ..]


2. La riforma organica del 2003. Il dovere di diligenza: la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico

Il legislatore della riforma organica della disciplina delle società di capitali e delle società cooperative del 2003 (D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) ha ritenuto – quanto meno con riguardo alle società rette dal modello tradizionale di governance – che la previgente formulazione dell’art. 2392 fosse inadeguata ad attribuire distintamente a ciascun amministratore la responsabilità che gli è propria in relazione al suo specifico comportamento, commissivo od omissivo, e che quindi tale norma fosse meritevole di revisione [4]. È stato così, innanzi tutto, eliminato il riferimento alla «diligenza del mandatario» dapprima riferita alla generalità degli amministratori. A dire il vero, in fondo, non è che tale riferimento fosse erroneo, ma era stato male inteso da generazioni di interpreti i quali da tale richiamo avevano evocato, in modo eccessivamente semplicistico, la diligenza del buon padre di famiglia enunciata dall’art. 1176, 1° comma, c.c.; per lo più dimenticando che il 2° comma dello stesso articolo stabiliva – come stabilisce – che: «Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale [quale indubbiamente è quella di amministratore di società], la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata» [5]. Inoltre, il riferimento alla diligenza del mandatario con riguardo all’adempimen­to dei doveri degli amministratori di società aveva dato adito, in passato, ad un’altra interpretazione, questa volta decisamente erronea, relativa alla natura del rapporto intercorrente tra i suddetti amministratori e la società amministrata: rapporto che per decenni è stato inquadrato nella figura del mandato [6] mentre, successivamente, è stato chiarito trattarsi di un diverso rapporto, nominato e tipico, individuato come rap­porto organico di amministrazione [7] – quanto meno nelle società azionarie e nelle s.r.l. connotate da una governance di stampo capitalistico – al quale non può applicarsi il fondamentale obbligo del mandatario di conformare il proprio operato alle direttive del mandante, o in alternativa di dismettere l’incarico, esercitando tali am­ministratori poteri e doveri propri, addirittura in via esclusiva [continua ..]


3. (Segue): la diligenza richiesta dalle specifiche competenze degli amministratori

Oltre al dovere di adempiere ai loro doveri «con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico», il legislatore del 2003 ha aggiunto che gli amministratori devono agire con la diligenza richiesta «dalle loro specifiche competenze». Gli amministratori, invero, non è richiesto che debbano essere periti in ogni campo del sapere occorrente per gestire bene una società. Anzi, non è neppure richiesto che per accedere alla carica di amministratore il soggetto debba possedere determinati titoli o determinate competenze professionali – salvo che la società non operi in ambiti particolari, regolati da discipline speciali – le quali comunque non potrebbero che essere competenze settoriali, non certo universali. Nella pratica si vede come vengano sovente chiamati a far parte dei consigli di amministrazione semplici azionisti, anche privi di specifiche competenze professionali, così come esperti del settore in cui la società esercita la propria attività od altri professionisti operanti nei campi più diversi (avvocati, commercialisti, ingegneri, professori, ecc.). Mi sia consentito fare un esempio che ho ripetuto a generazioni di studenti: se nel consiglio di amministrazione di una società farmaceutica siedono, fra gli altri, in qualità di amministratori privi di deleghe, un provetto giurista e un medico, ricercatore, magari anche insignito del premio Nobel, e viene portata all’esame del consiglio in composizione collegiale una determinata operazione, ad esempio di sfruttamento industriale di una molecola inventata per la cura del diabete, e la società dovesse subire un danno a causa di determinati vizi contrattuali, chi fra questi due consiglieri potrebbe essere reputato responsabile? Evidentemente l’insigne giurista, che non ha esaminato con le dovute perizia ed attenzione il contratto portato in consiglio; non certo il provetto ricercatore, la cui scienza non si estende, normalmente, alla contrattualistica. Ma se il medicinale derivante dall’applicazione di quella molecola, pur curando il diabete, facesse venire il mal di cuore ai pazienti che dovessero assumerlo, con ciò provocando alla società ingenti danni, quale responsabilità – e non lo dico certo per spirito di corpo – potrebbe annettersi al giurista? Responsabile potrebbe semmai ritenersi il medico, il ricercatore, colui cioè che [continua ..]


4. L’ablazione del dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione. La responsabilità per colpevole inerzia in caso di conoscenza di fatti pregiudizievoli

Un’ulteriore fondamentale modificazione del 1° comma dell’art. 2392 riguarda l’esclusione della responsabilità solidale verso la società degli amministratori – e in particolare di quelli non esecutivi – per gli atti pregiudizievoli derivanti dalle attribuzioni proprie del comitato esecutivo o da «funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori». Le funzioni «in concreto» attribuite ad uno o più amministratori possono infatti anche prescindere da deleghe di poteri formalmente regolari, possono cioè dipendere anche dall’esercizio de facto dell’attività gestoria da parte dei suddetti amministratori, sviluppata senza che gli altri possano averne conoscenza né intervenire – come prescrive la legge – per eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose, purché il loro potere di impegnare validamente la società nei confronti dei terzi, anche all’insaputa degli altri consiglieri, derivi dallo statuto o dalla deliberazione di nomina assunta dai soci in sede assembleare, come previsto dal­l’art. 2384 c.c. secondo il quale – con riferimento all’art. 2206, 2° comma, in tema di institore – la rappresentanza di questi amministratori è «generale» [12]. Riguardo a questa assunzione di responsabilità da parte degli amministratori non esecutivi per non aver fatto quanto in loro potere per impedire il compimento dei fatti pregiudizievoli o per eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose, due considerazioni si impongono. La prima è quella dell’ablazione dell’obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione – di cui si è detto in precedenza – che era un dovere impossibile ad espletarsi ad opera degli amministratori deleganti. Che questi ultimi siano comunque tenuti ad interessarsi del generale andamento della gestione lo si vedrà subito quando si esaminerà la norma dell’art. 2381 c.c.: ma non quale dovere di vigilanza, bensì, più cautamente, quale dovere di valutazione, sulla base del flusso informativo fornito al consiglio dal comitato esecutivo o dall’ammi­nistratore delegato o dagli amministratori delegati [13]. La responsabilità per il comportamento omissivo di cui è menzione nel 2° comma dell’art. 2392 scatta però se gli [continua ..]


5. I doveri degli amministratori delegati e deleganti nel novellato art. 2381 c.c.

Il presupposto della responsabilità degli amministratori risiede – come s’è visto – nell’inadempimento ai doveri imposti loro dalla legge e dallo statuto. Prima della riforma del 2003, il Codice era piuttosto criptico nell’indicare tali doveri, quanto meno con riguardo a quelli imposti in via generale dalla legge [18]. Ricordo che quando ponevo la domanda agli studenti in sede di esame ricevevo sovente le risposte più vaghe. Gli amministratori dovevano redigere bilanci corretti, diceva taluno; o provvedere all’iscrizione degli atti o dei fatti previsti dalla legge nel registro delle imprese, soggiungeva talaltro; od ancora presentare tempestivamente dichiarazioni fiscali complete e veritiere. Coloro che erano dotati di maggiore senso pratico si spingevano ad asserire che essi dovevano porre in essere dei buoni affari dai quali la società potesse ricavare profitti. Tutto giusto, almeno in teoria, ma fino a un certo punto. Figuriamoci se gli amministratori di società, specialmente se di una certa dimensione economica, si occupano delle iscrizioni o dei depositi dovuti: ci penserà qualche impiegato o qualche studio professionale esterno. Lo stesso dicasi per le dichiarazioni fiscali, che parecchi amministratori non sarebbero neppure in grado di predisporre. Ma gli amministratori non redigono neppure i bilanci d’esercizio – pur essendo questa una materia riservata all’intero consiglio e non delegabile – come pure gli altri eventuali bilanci straordinari o prospetti contabili: di ciò si occuperà la direzione amministrativa o, nelle società che ne siano dotate, il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari; mentre il consiglio d’amministrazione in composizione collegiale interverrà sulle decisioni di più alto livello, quali ad esempio le regole per la svalutazione dei crediti o l’entità degli accantonamenti ai fondi per rischi ed oneri. Ed anche per quanto riguarda la partecipazione alla conduzione degli affari rientranti nell’attività descritta nell’oggetto sociale, solo quelli di maggiore importanza e quelli, per così dire, strategici saranno direttamente seguiti da qualche amministratore esecutivo, mentre il compimento di tutti gli altri affari sarà rimesso all’organiz­zazione aziendale composta, ove esistente, dal direttore [continua ..]


6. Il dovere di agire in modo informato

Ritornando però ai doveri degli amministratori introdotti dalla riforma organica del 2003, spicca quello forse più importante fra tutti, nel cui obbligo di osservanza è accomunata la generalità degli amministratori, deleganti e delegati. Si tratta del dovere di «agire in modo informato» [24] che, pur essendo – come detto – comune a tutti gli amministratori, opera su piani diversi a seconda che incomba sugli organi delegati o sugli amministratori non esecutivi. Gli organi delegati, sui quali incombe l’esercizio dell’attività economica, che è innanzi tutto l’attività consistente nell’operare le scelte imprenditoriali, agiscono in modo informato ogni qualvolta assumano le decisioni di loro competenza sulla base di un complesso di conoscenze (dei mercati, dei prodotti, delle situazioni contingenti, dei dati emergenti da adeguati piani economici e finanziari, ecc.) approfondite e meditate, senza assumere risoluzioni superficiali o affrettate, e soprattutto alla luce di un obiettivo calcolo dei rischi che le scelte, e quindi le operazioni, sottostanti a tali decisioni siano suscettibili di comportare. Fatto ciò con le dovute serietà e preparazione, nessuno più potrà eccepire la negligenza, ossia la colpa, degli organi delegati, neppure se le operazioni così istruite non dessero luogo ai profitti sperati, ma producessero invece delle perdite [25], in quanto – ove il suddetto dovere sia stato effettivamente osservato – neppure il giudice avrebbe titolo per compiere ex post uno scrutinio sull’esito dell’operato dei medesimi amministratori (Business judgment rule) [26]. Per gli amministratori non esecutivi, di contro, l’agire in modo informato assume delle connotazioni decisamente diverse e meno onerose, limitandosi appunto alla valutazione del più volte menzionato assetto organizzativo e dell’adeguatezza di questo alla natura e alle dimensioni dell’impresa sociale; con l’obbligo però di richiedere agli organi delegati che in consiglio vengano rese ulteriori informazioni ogni qualvolta quelle già da essi fornite appaiano insufficienti o scarsamente esplicative, ovvero contraddittorie od opache [27], così da poter davvero pervenire alla richiesta valutazione su basi certe e convincenti. E qui il discorso si ricongiunge con le considerazioni [continua ..]


7. Il ruolo del presidente del consiglio d’amministrazione

Non avendo gli amministratori privi di deleghe la possibilità di esercitare attività individuali pertinenti alla carica, ma potendo unicamente partecipare al funzionamento dell’organo amministrativo collegiale di cui fanno parte, essi non possono che pretendere di ricevere le ulteriori informazioni richieste agli organi delegati «in consiglio». Ciò non significa tuttavia – a mio avviso – che fuori dal consiglio tali amministratori non possano fare assolutamente nulla. Già si è visto che i “segnali di allarme” in grado di convincerli a richiedere ulteriori informazioni agli organi delegati possano loro pervenire anche da conoscenze acquisite privatamente, cioè appunto al di fuori del consiglio stesso. Anche l’attività di stimolo ad ottenere tali ulteriori informazioni potrebbe da questi essere svolta fuori dalla loro partecipazione alle riunioni del consiglio. Come? Allertando il presidente del consiglio di amministrazione. Il presidente del consiglio di amministrazione [28] – oltre a «provvedere affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri» in tempo utile per poterle compulsare, a presiedere le riunioni del consiglio, a verificare il diritto di intervento, a coordinarne i lavori, a regolare la discussione che vi si svolge, a dare e togliere la parola agli intervenuti, a mettere in votazione le proposte di deliberazioni e a proclamarne gli esiti – ha ricevuto dalla riforma del 2003 due poteri nuovi, nel senso che in precedenza non erano contemplati dalla legge: quello di convocare il consiglio e quello di fissare l’ordine del giorno delle sedute (art. 2381, 1° comma). Anche se il presidente del consiglio di amministrazione non ha – come solitamente accade – poteri delegati, la cui attribuzione lo renderebbe a tutti gli effetti un amministratore delegato, ciò non di meno i suddetti poteri gli spettano in via esclusiva. Prima della riforma, invero, a meno che vi fosse una specifica previsione statutaria, non era precisato chi dovesse convocare l’organo amministrativo e, soprattutto, chi dovesse fissare l’ordine del giorno delle sedute: molto spesso erano proprio gli amministratori delegati a provvedere a questi adempimenti, ora spettanti – salvo diversa previsione statutaria – al presidente. Se [continua ..]


8. La compresenza di una pluralità di amministratori con deleghe

Già si è avuto occasione di ricordare che il legislatore della riforma organica del 2003, trattando delle deleghe a singoli amministratori, abbia avuto riguardo precipuamente alla figura dell’amministratore delegato dotato dei più ampi poteri suscettibili di formare oggetto di delega: in sostanza, il capo azienda o, com’è in voga dire nelle corporations anglo-americane, il Ceo (Chief executive officer). In realtà, non tutte le società sono strutturate in questo modo. Specialmente nelle società di capitali facenti parte di gruppi, a fianco – e magari in subordine – all’am­ministratore delegato dotato dei più ampi poteri ci sono altri amministratori delegati, con poteri più circoscritti, che non di rado sono i capi (o direttori) delle varie funzioni aziendali: e tutti quanti – tralasciando in questa sede i possibili problemi di ordine previdenziale – sono dipendenti, normalmente con la qualifica di dirigenti, della società. Così, oltre al Ceo, che assume la carica di amministratore delegato, ci sono altri amministratori a cui vengono attribuite specifiche deleghe per le attività richieste nei diversi comparti aziendali: l’amministratore con delega agli acquisti, quello con delega alla produzione, quello con delega all’amministrazione, finanza e controllo, quello con delega al personale e alle risorse umane, quello con delega alla commercializzazione dei prodotti e alle vendite, e così via. Una constatazione che fa sorridere: non è infrequente che la carica di amministratore delegato venga assunta soltanto dal Ceo, mentre gli altri amministratori con deleghe più circoscritte vengono talvolta qualificati come consiglieri delegati, per metterne in rilievo una posizione in qualche modo sottordinata rispetto a quella dell’amministratore delegato, come se, almeno in questa materia, i sostantivi “amministratore” e “consigliere” non fossero dei perfetti sinonimi [29]. In presenza di più amministratori delegati, le previsioni normative riferite agli organi delegati devono intendersi riferite alle materie per le quali ciascuno di essi ha ricevuto delega. Per converso, per quanto attiene alle materie per le quali essi non hanno ricevuto delega, la loro posizione è sostanzialmente equivalente a quella degli amministratori deleganti. Così, [continua ..]


9. La riforma del sistema della responsabilità è stata completata dalle nuove norme in tema di interessi degli amministratori, di operazioni con parti correlate e di obblighi in caso di scioglimento della società. La responsabilità solidale tra tutti gli amministratori sulla via del tramonto

Una semplice notazione di sintesi su quanto fin qui esposto. L’ablazione dell’ob­bligo un tempo posto a carico di tutti gli amministratori di vigilare sul generale andamento della gestione e l’intento di addossare ad ogni singolo amministratore la responsabilità per l’inadempimento ai propri doveri, a cui ottemperare con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e delle specifiche competenze di ciascuno di essi, hanno notevolmente ridotto l’entità dell’eventuale danno ascrivibile a questi, e soprattutto agli amministratori non esecutivi. Questo quadro normativo – sia detto per esaustività – trova completamento nella revisione di altre rilevanti disposizioni, operata nel segno dell’accentuazione della trasparenza. La prima è quella che impone a tutti gli amministratori di disvelare ogni possibile interesse che possano avere personalmente o per conto di terzi in operazioni della società «precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata». Interesse che, se dichiarato da un amministratore delegato, gli preclude di agire nell’esercizio della delega e lo obbliga a rimettere ogni decisione al riguardo al consiglio di amministrazione nella sua composizione collegiale; e che rende inoltre necessario che dal verbale della relativa deliberazione consiliare vengano adeguatamente motivate «le ragioni e la convenienza per la società dell’operazione» (art. 2391 c.c., non ripreso – chissà perché – nella disciplina delle s.r.l. nella quale è rimasta ancora la vecchia norma sul conflitto di interessi, ampiamente superata per le s.p.a.) [30]. La seconda è quella – già ricordata – della disclosure sulle operazioni con parti correlate, dettata per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, ma senz’altro applicabile anche a tutte le altre società per azioni [31]. La terza è quella concernente i doveri degli amministratori in caso di insorgenza di una causa di scioglimento della società, che può andare dalla discesa del capitale sociale al disotto del minimo legale senza un tempestivo intervento di ricostituzione del medesimo, alla perdita – per ogni altra ragione – del requisito della continuità aziendale. A differenza del previgente art. 2449 c.c. che inibiva [continua ..]


10. L’entità del danno e l’onere dimostrativo incombente all’attore

E già che si è giunti a trattare dell’entità del danno [35], non può omettersi di ricordare la celebre sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, 6 maggio 2015, n. 9100 (Rovelli presidente e Rordorf estensore) [36], fin troppo nota per essere ripercorsa se non in modo estremamente succinto. Di tale sentenza, ai fini che qui rilevano, merita ricordare due aspetti fondamentali, suscettibili di attenta considerazione e di studio. Il primo riguarda l’excursus sulle varie fasi nelle quali, nelle azioni di responsabilità promosse dalle procedure concorsuali, la giurisprudenza ha preteso di addossare ai convenuti (amministratori, sindaci, direttori generali) l’intera differenza fra il passivo e l’attivo fallimentare: da quando tale responsabilità – assorbente e complessiva – veniva addebitata agli ex amministratori (e con questi, per omessa vigilanza, agli ex sindaci) che avevano compiuto nuove operazioni dopo lo scioglimento della società o ne avevano causato il dissesto con la loro mala gestio [37], su su, attraverso motivazioni in continuo mutamento fino a quando la medesima responsabilità veniva loro comminata sostanzialmente a titolo di sanzione per non avere tenuto, o per aver tenuto irregolarmente, le scritture contabili obbligatorie [38], così da impedire ai curatori di fornire la prova del nesso di causalità fra il comportamento illecito dei convenuti e l’entità del danno da questi causato alla società fallita [39]. La sentenza in esame ha compiuto un radicale révirement a questo proposito, affermando che ciascun singolo amministratore deve essere tenuto responsabile esclusivamente per il danno causalmente provocato alla società con il proprio comportamento, e quindi con il proprio inadempimento ai suoi doveri; e che quindi egli può essere tenuto responsabile per un danno pari alla differenza fra il passivo e l’attivo fallimentare esclusivamente quando il proprio inadempimento sia «efficiente a produrre un danno che si assuma corrispondente all’intero deficit patrimoniale accumulato dalla società». Quanto poi alla mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili da parte degli amministratori, la sentenza riconosce che tali scritture non sono di per sé causa di perdite patrimoniali per la società, ma si limitano a registrare [continua ..]


11. Cenno sulla prospettazione della responsabilità degli amministratori non esecutivi nelle società esercenti l’impresa bancaria

I risultati della “rivoluzione” determinata dalla riforma organica del 2003 sulla disciplina della responsabilità degli amministratori, e soprattutto degli amministratori non esecutivi, è stata tuttavia disconosciuta in diverse pronunzie giurisprudenziali emanate con riguardo agli amministratori di società bancarie. Ancora recentissimamente la Suprema Corte ha infatti deciso che tutti gli amministratori – esecutivi e non esecutivi – delle banche hanno il dovere di garantire la “sana e prudente gestione” delle stesse, con ciò assumendo l’obbligo di assicurare un efficace governo dei rischi in tutte le aree operative, nonché di agire allo scopo di esercitare un’effi­cace funzione conoscitiva e di monitoraggio sulle decisioni gestorie a tutti i livelli. Il che significa che anche gli amministratori non esecutivi sono tenuti ad esercitare tale funzione sulle decisioni e sulle operazioni compiute dagli organi delegati [45]. In effetti le banche devono sottostare a un quadro normativo diverso da quello delineato dalle disposizioni del Codice civile fin qui considerate: quadro normativo nel quale rientrano – in base alle previsioni dell’art. 53 TUB – le statuizioni regolamentari via via emanate dalla Banca d’Italia, fra cui risalta la Circolare 17 dicembre 2013, n. 285, a mente della quale i componenti non esecutivi dei consigli di amministrazione delle banche, avvalendosi dei comitati interni, ove presenti, del management, della revisione interna e delle altre funzioni aziendali di controllo devono acquisire informazioni sulla gestione e sull’organizzazione aziendale (Parte I, par. IV.1.18). Tenuto conto di questa disciplina speciale di settore – derogatoria rispetto alla novellata disciplina civilistica, delle cui importanti innovazioni non pare tener conto in parte qua, mantenendosi attestata sulla posizione anteriore alla riforma del 2003 – la giurisprudenza ha continuato a condannare amministratori non esecutivi di banche per l’omessa vigilanza sull’operato degli organi delegati [46]. La tendenza, in materia bancaria, appare dunque quella di apprezzare con maggior rigore la posizione e i doveri degli amministratori non esecutivi, riportandone in buona sostanza la disciplina a cui sono soggetti a quella anteriore alla più volte menzionata riforma organica del 2003, facendo prevalere sulla norma del [continua ..]


12. L’integrazione dell’art. 2086 c.c. e le nuove norme introdotte nel Codice civile dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza

Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, art. 375, 2° comma, entrato in vigore il 16 marzo successivo) ha introdotto il 2° comma dell’art. 2086 c.c. [49] nel testo che segue: «L’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale» [50]. Nel momento in cui il Codice civile del 1942 venne emanato, tuttavia, l’art. 2086 era idealmente completato dalla disposizione dell’art. VII, 2° comma, della Carta del Lavoro del 1927, pur nella prospettiva di allora, per la quale l’esercizio dell’impresa assumeva rilievo per la stessa economia nazionale e il diritto dell’im­presa assumeva connotazioni marcatamente pubblicistiche [51]. Abrogato l’ordinamento corporativo [52], il 1° comma dello stesso articolo, lasciato fine a se stesso, aveva effettivamente poco senso, limitandosi ad affermare un dato scontato, e cioè che l’im­prenditore è il capo dell’impresa e che da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori. Detto questo per precisazione storica [53], occorre riconoscere che non è l’integra­zione apportata all’art. 2086 c.c. che ha influenzato la successiva produzione legislativa in materia di diritto dell’impresa [54]; ma è, al contrario, la profonda innovazione introdotta all’art. 2381 c.c. dalla riforma organica del 2003 che ha influenzato la modifica che sarebbe stata apportata, sedici anni dopo, allo stesso art. 2086. Le espressioni che ricorrono nel 2° comma di questo stesso articolo sono infatti quelle che già erano presenti nel 3° e nel 5° comma del novellato art. 2381; per cui deve riconoscersi che il legislatore del Codice della Crisi e dell’Insolvenza ha attinto alle regole già emanate per le società per azioni estendendole a tutte le imprese organizzate in forma associata e, più [continua ..]


NOTE