La nota prende in esame la disciplina contenuta nell'art. 2471 c.c., richiamata dall'art. 106 L. Fall. (oggi art. 215 del Codice della crisi d'impresa e dell’insolvenza), soffermandosi sulle clausole ostative alla libera circolazione delle partecipazioni nella società a responsabilità limitata e sul loro coordinamento con la disciplina delle vendite fallimentari.
This contribution examines the rules provided for by Article 2471 of the Civil Code, also in the light of those set out in Article 106 of the Law on Bankruptcy (now Article 215 of the Corporate crisis and insolvency Code), with regard to the clauses preventing the free circulation of shares in limited liability companies and to their coordination regard to bankruptcy sale.
1. Il caso - 2. I limiti alla libera trasferibilità delle partecipazioni sociali - 3. L’espropriazione della partecipazione ai sensi dell’art. 2471 c.c. - 4. La vendita della partecipazione del socio fallito - NOTE
Con l’ordinanza che si commenta il Tribunale di Siracusa in composizione collegiale ha accolto il reclamo avverso il provvedimento del Giudice Delegato col quale era stato disposto il trasferimento della quota di partecipazione in una società a responsabilità limitata in favore di un socio titolare del diritto di prelazione che ne aveva fatto richiesta, nonostante la vendita competitiva in corso. Le conclusioni del Collegio sono basate sulla prevalenza, rispetto alle regole statutarie, del peculiare procedimento espropriativo della partecipazione contenuto nell’art. 2471, 3° comma, c.c., espressamente richiamato dall’art. 106, 2° comma, L. Fall. (oggi art. 215, 2° comma, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza) nell’ipotesi della vendita da parte del curatore fallimentare o del liquidatore del concordato preventivo con cessione dei beni. Afferma infatti il Collegio che “in ogni caso, la procedura per l’esercizio del diritto di prelazione prevista dallo Statuto societario, anche qualora correttamente eseguita, non avrebbe comunque potuto trovare applicazione per essere nel caso di specie applicabile il combinato disposto di cui agli artt. 106 L. fall. e 2471 c.c.”. In sostanza, per l’appunto, la Corte ritiene applicabile, anche in caso di presenza nello statuto sociale di una clausola di prelazione, quanto previsto dall’art. 2471, 3° e 4° comma, c.c. che, in presenza di limiti alla trasferibilità delle partecipazioni, dispone la vendita all’incanto quale opzione successiva e conseguente al mancato o fallito tentativo di accordo tra il creditore, il debitore e la società in ordine alla cessione medesima, procedimento che nella specie non era stato posto in essere e che il Collegio ritiene prevalente rispetto a quello eventualmente previsto dallo statuto sociale per l’esercizio della prelazione.
In tema di cedibilità delle quote di partecipazione in una società a responsabilità limitata la regola generale è contenuta nell’art. 2469, 1° comma, c.c., ove è prevista la libera trasferibilità, sia inter vivos che mortis causa, salve le possibili diverse previsioni dell’atto costitutivo o dello statuto. Invero, nella prassi, l’inserimento di clausole che limitato la libera trasferibilità è molto frequente [1], probabilmente per soddisfare le esigenze della compagine sociale delle società a responsabilità limitata, sovente costituite, a differenza delle società per azioni, per interessi di natura personalistica riferibili a pochi soggetti, peraltro spesso mossi dall’intento di partecipare attivamente all’attività imprenditoriale [2]; al riguardo bisogna infatti sottolineare l’elasticità della struttura delle società a responsabilità limitate, le cui regole operative possono essere similari a quelle delle società per azioni, ma anche a quelle delle società di persone [3]. Le ragioni sottese all’inserimento di dette clausole risiedono dunque spesso nell’avvertita esigenza di evitare l’ingresso in società di terzi, magari non legati da vincoli familiari, affettivi o fiduciari, o di subordinarlo a un vaglio preventivo [4], essendo, a contrario, anche possibile prevedere, per le medesime ragioni, che i limiti non operino qualora il trasferimento avvenga a favore di familiari o degli altri soci. La clausola che più frequentemente si rinviene è quella c.d. di prelazione, la cui ratio risiede nell’intento di evitare il subingresso di terzi nella società non vietando il diritto a soggetti estranei, ma subordinandolo al mancato acquisto da parte degli altri soci [5]. Essa, come è noto, implica una preventiva comunicazione da parte del socio che intende vendere la propria partecipazione, qualificata come denuntiatio, espressione della formalizzata intenzione agli altri soci di alienare la quota e contenente le condizioni offerte dal terzo acquirente, rispetto a cui entro il termine indicato (o comunque previsto nello statuto) gli altri soci possono esercitare la prelazione medesima con il conseguente acquisto in luogo del terzo [6]. La clausola di prelazione garantisce anche l’interesse dei soci a mantenere [continua ..]
L’attuale art. 2471 c.c., introdotto dal D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6, nel riprodurre il testo del previgente art. 2480 c.c., se ne discosta anzitutto per la sostituzione del termine “partecipazione” al termine “quota” al 1° comma (ma stranamente e probabilmente solo per un difetto di coordinamento non al 3° comma); secondariamente, per la espressa possibilità di espropriare la partecipazione in società a responsabilità limitata, con l’inserimento di (seppur scarne) indicazioni processuali. In realtà la possibilità di espropriare la partecipazione non destava anche in precedenza particolari perplessità; la relativa espressa menzione può ritenersi pertanto una tecnica di richiamo a un principio generale in relazione al successivo contenuto della previsione normativa. La quota è infatti un bene immateriale equiparabile ai beni mobili materiali [17], così come confermato dall’introduzione ad opera della riforma del 2003 dell’art. 2471-bis c.c. in tema di pegno, usufrutto e sequestro [18]. Peraltro, prima della predetta riforma, nessuna indicazione procedurale in merito all’espropriazione della partecipazione era rinvenibile nelle previsioni di diritto sostanziale, sicché si riteneva dovesse farsi riferimento alla disciplina del codice di rito in tema di esecuzione presso terzi [19]; d’altronde, difficilmente avrebbero potuto ritenersi applicabili la disciplina del pignoramento di beni in possesso del debitore di cui all’art. 513 ss. c.p.c. e quella del pignoramento di beni indivisi ex art. 599 ss. c.p.c. Alcune pronunce di merito hanno però successivamente avallato una tesi diversa, ritenendo che il pignoramento andasse eseguito unicamente con l’iscrizione dello stesso nel registro delle imprese [20]. Ad oggi può invece ritenersi che la procedura di cui all’art. 2471 c.c. sia configurabile quale “pignoramento diretto”, che non rientra nell’ipotesi del pignoramento presso terzi, né in quella del pignoramento presso il debitore e neppure in quella del pignoramento dei beni indivisi [21]. L’atto di pignoramento deve indicare i dati del creditore, del debitore e della società, l’ammontare del valore nominale della quota, il titolo esecutivo, il precetto e l’ingiunzione ex art. 492 c.p.c. rivolta [continua ..]
Il caso oggetto del provvedimento che qui si commenta concerne la vendita all’incanto della partecipazione in una società a responsabilità limitata ai sensi del combinato disposto degli artt. 106, 2° comma, L. Fall. (oggi art. 220, 2° comma, Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza) e 2471 c.c., in presenza di una clausola di prelazione. Trattavasi, nel caso specifico, di una vendita effettuata nell’ambito di un concordato preventivo con cessione dei beni, con la conseguente applicabilità, ai sensi dell’art. 182 L. Fall., degli articoli da 105 a 108-ter L. Fall., ed in particolare dell’art. 106 L. Fall., richiamato anche nel provvedimento di omologa. La decisione adottata, peraltro, ha portata generale anche al di là del caso specifico, riguardando l’interpretazione degli artt. 2471 c.c. e 106 L. Fall. (ora art. 215 c.c.i.) anche in sede di fallimento/liquidazione giudiziale. L’art. 106 L. Fall. (oggi art. 220 Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza), rubricato “Cessione dei crediti, dei diritti e delle quote, delle azioni, mandato a riscuotere”, espressamente (al 2° comma) richiama l’art. 2471 c.c. e le relative prescrizioni per la vendita della quota di società a responsabilità limitata con riferimento all’ipotesi in cui il curatore debba cedere la partecipazione del socio fallito. D’altro canto lo stesso art. 2471 c.c., al 4° comma, prevede che le disposizioni ivi contenute si applicano anche nell’ipotesi in cui un socio venga sottoposto a fallimento (oggi liquidazione giudiziale). Detto richiamo è quindi volto a far sì che la disciplina dell’art. 2471 c.c. si applichi, in quanto compatibile, anche in sede fallimentare, in termini cioè di applicazione di una norma di diritto comune in sede fallimentare [44]. Bisogna quindi coordinare le regole civilistiche con quelle del diritto fallimentare, specie in seguito alle continue riforme intervenute a partire dagli anni 2005 – 2006 e che sono culminate nell’entrata in vigore del Codice della crisi. Va ricordato in proposito che, ai sensi dell’art. 104-ter L. Fall., è compito del curatore predisporre un programma di liquidazione entro sessanta giorni dall’inventario e, in ogni caso, non oltre centottanta giorni dalla sentenza dichiarativa di fallimento da [continua ..]