Il Diritto Fallimentare e delle Società CommercialiISSN 0391-5239 / EISSN 2704-8055
G. Giappichelli Editore

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Società di capitali in liquidazione e concordato preventivo in “continuità aziendale” (di Vincenzo Vito Chionna, Professore ordinario di Diritto commerciale nell'Università degli Studi di Bari “A. Moro”)


Il saggio si occupa della relazione tra stato di liquidazione di una società di capitali e continuità dell’impresa per verificare la praticabilità di una procedura di concordato preventivo in continuità aziendale anche da parte di una società in liquidazione.

La riflessione giunge alla conclusione che ciò è giuridicamente possibile dopo aver accertato l’o­mogeneità nel nostro diritto positivo tra continuità dell’impresa in liquidazione e continuità dell’im­presa in concordato preventivo sotto i seguenti tre profili:

(a) la diretta strumentalità – in termini vincolati di “utilità” – della continuazione dell’attività rispetto all’obiettivo della migliore e prioritaria soddisfazione dei creditori;

(b) il potere dei liquidatori di decidere e porre in essere l’eccezionale atto gestorio “nuovo” costituito dalla particolare continuazione dell’impresa;

(c) l’esistenza di un piano della continuità che preveda un termine entro il quale assicurare la soddisfazione massima dei creditori.

Limited company during liquidation and judicial composition with creditors in “going concern”

The essay deals with the relationship between the state of liquidation of a limited company and the continuity of the business in “going concern” in order to verify the feasibility of an “concordato preventivo” procedure in business continuity also by a company in liquidation.

It comes to the conclusion that this is legally possible after ascertaining the homogeneity in our positive law between the continuity of the company in liquidation and the continuity of the company in “concordato preventivo” procedure in the following three features:

(a) the direct instrumentality – in binding terms of ‘utility’ – of the continuation of the business in relation to the objective of the best and priority satisfaction of creditors;

(b) the power of the liquidators to decide and implement the exceptional ‘new’ management act constituted by the particular continuation of business;

(c) the existence of a continuity plan providing for a time limit within which to ensure the maximum satisfaction of creditors.

SOMMARIO:

1. La fattispecie - 2. Dal “divieto” di nuove operazioni alla eccezionale possibilità di intraprenderle ex art. 2489 c.c. qualora “utili” ... - 3. … anche quando le nuove operazioni siano proprie di un “esercizio provvisorio” dell’impresa in stato di liquidazione ex art. 2487, 1° comma, lett. c), c.c. - 4. I caratteri di sostenibilità della “continuità liquidatoria” - 5. Dalla “continuità liquidatoria” alla “continuità concordataria” - 6. Il concordato preventivo in c.d. “continuità aziendale” quale operazione gestoria “utile” alla liquidazione di una società di capitali: il potere di decidere il compimento del particolare “atto utile” alla liquidazione - 7. (Segue): la “sostenibilità” della continuità concordataria in termini di “utilità” per la migliore liquidazione - 8. (Segue): la prospettiva temporale vincolata della continuità concordataria tra limiti di attestabilità e irrilevanza della revoca dello stato di liquidazione - NOTE


1. La fattispecie

1.1. Il formale stato di liquidazione di una società di capitali (in crisi) è stato spesso considerato, soprattutto nel diritto giurisprudenziale, motivo di dubbio per la praticabilità di una procedura di soluzione negoziata della crisi legata alla continuità aziendale ex art. 186-bis L. Fall. (oggi ex art. 84, 2° comma, c.c.i.i. [1]). Sia chi non ha ritenuto omologabile un concordato preventivo proposto in c.d. “continuità diretta” da società in liquidazione [2], sia chi più radicalmente non lo ha ritenuto neanche ammissibile in qualsiasi sua declinazione a meno che, prima del deposito del ricorso, nell’eventuale c.d. periodo finestra ex art. 161, 6° comma, L. Fall. (oggi art. 44 c.c.i.i.), la società ricorrente non abbia revocato la liquidazione ai sensi dell’art. 2487-ter c.c. [3], ha sempre determinato il suo convincimento essenzialmente sulla base del dato formale dell’incompatibilità giuridica che esisterebbe tra lo stato di liquidazione di una società di capitali e la continuità concordataria dell’impresa. Più precisamente, questa giurisprudenza ha ritenuto che, in buona sostanza, la mancanza di un formale stato di liquidazione della società ricorrente costituisca una sorta di condizione giuridica della continuità concordataria che, per sua natura, soprattutto quando “diretta” [4], si caratterizza per la prosecuzione dell’impresa con l’i­nizio di nuove operazioni attraverso le quali produrre flussi economici destinati ad offrire ai creditori concordatari la migliore soddisfazione possibile (rispetto ad ogni altra alternativa) [5]. Insomma, secondo questa linea di pensiero, la continuità concordataria non sarebbe di per sé praticabile quale strumento di soluzione negoziale della crisi da chi – come una società in stato di liquidazione – ha dovuto fare dell’ordinaria impossibilità di intraprendere sic et simpliciter nuove operazioni gestorie (pur come oggi declinata art. 2489 c.c.) un cardine della soddisfazione dei propri creditori: cioè da chi la legge chiama a vivere l’attività economica in termini ormai vincolati al conseguimento di un oggetto sociale “trasfigurato”, cioè non più orientato alla produzione o allo scambio di beni o servizi in c.d. [continua ..]


2. Dal “divieto” di nuove operazioni alla eccezionale possibilità di intraprenderle ex art. 2489 c.c. qualora “utili” ...

2.1. La riforma del diritto societario del 2003, è noto, ha novellato sensibilmente le regole della liquidazione delle società di capitali attribuendo, tra l’altro, ai liquidatori attraverso l’art. 2489, 1° comma, c.c. “il potere di compiere tutti gli atti utili per la liquidazione della società” quando non vi sia “diversa disposizione statutaria, ovvero adottata in sede di nomina”. In questa prospettiva, la cassazione del tradizionale espresso “divieto di intraprendere nuove operazioni” (dal sorgere della causa di scioglimento) fino ad allora inderogabilmente fissato dal previgente art. 2449 c.c. [7] non si può dire sia valsa di per sé a legittimarle sic et simpliciter tanto che, ancor oggi, dottrina e giurisprudenza in linea di principio tendono ad escluderne la possibilità per la loro naturale estraneità alla finalità conservative del patrimonio ex art. 2486 c.c. [8], ammettendole però eccezionalmente previa verifica caso per caso della “utile” – e non più “necessaria” – “funzionalizzazione dell’atto al raggiungimento delle finalità proprie della liquidazione”. Divenuta marginale la dimensione reale propria delle conseguenze sull’atto “nuovo” illegittimo (proprio per il venir meno dell’espresso divieto imperativo e, quindi, delle conseguenze della sua violazione), in una prospettiva essenzialmente obbligatoria, la legge ha così rimesso ai “liquidatori (…) ampia discrezionalità nell’individuazione e realizzazione degli atti ‘utili’ al raggiungimento delle finalità di liquidazione, sia in ordine alla realizzazione dell’attivo, che relativamente all’eli­minazione del passivo” [9]. In questa prospettiva, le finalità proprie della liquidazione volontaria, è noto, restano essenzialmente quelle della prioritaria soddisfazione di ciascun creditore (e poi, de residuo, anche dei soci) mediante la migliore – per misura e tempi – liquidazione possibile dell’intero patrimonio della società, di regola senza vincolo di concorsualità anche nel caso di “sbilancio patrimoniale” venutosi a creare durante la fase della liquidazione. Infatti, per opinione prevalente in dottrina (seppur non ancora pacifica in [continua ..]


3. … anche quando le nuove operazioni siano proprie di un “esercizio provvisorio” dell’impresa in stato di liquidazione ex art. 2487, 1° comma, lett. c), c.c.

3.1. Questo nuovo orizzonte operativo aperto ai liquidatori dalla riforma del diritto societario del 2003 raggiunge la sua estensione massima, è noto, quando l’atto gestorio nuovo non è isolato ed occasionale ma rientra in una sorta di temporanea continuazione (o ripresa) dell’attività di impresa durante la persistente fase di liquidazione. È il caso – dal 2003 espressamente previsto e disciplinato dall’art. 2487, 1° comma, lett. c), c.c. – del c.d. esercizio provvisorio dell’impresa che, tutt’affatto diverso da quello fallimentare tradizionalmente previsto dall’art. 104 L. Fall. (oggi dall’art. 211 c.c.i.i. [13]), per dottrina prevalente non solo (a) è pacificamente compatibile con lo stato di liquidazione [14], ma soprattutto (b) è considerato un possibile “atto utile alla liquidazione” che i liquidatori possono autonomamente decidere di porre in essere – sempre previamente da costoro verificata la sua concreta “utilità” ex art. 2487, 1° comma, c.c. nei termini e per gli effetti di cui si è detto – anche in mancanza di indicazioni statutarie o assembleari in tal senso. Infatti, si ritiene ormai con sufficiente chiarezza, che “(…) l’attività «provvisoria» di impresa e la cessione dell’azienda sociale non sono atti ontologicamente incompatibili con la fase di liquidazione, ma sono atti ritenuti utili alla liquidazione, come dimostra l’art. 2487. Ora, come detto, i liquidatori possono, in assenza di limitazioni, compiere «tutti gli atti utili alla liquidazione». Ergo i liquidatori possono porre in essere la continuazione provvisoria dell’attività di impresa e/o la cessione dell’azienda sociale. E questo a prescindere da una delibera assembleare che, al più, può limitare l’attività degli stessi, ma che non è elemento che caratterizza e facoltizza gli atti utili, dato che l’art. 2489 non pone in essere alcuna differenziazione tra «atti utili» per cui è necessaria l’autorizzazione assembleare e atti per i quali non sarebbe richiesta, rimettendo, al contrario, la scelta e la responsabilità ai liquidatori” [15]. 3.2. Di questa qualificazione giuridica della eccezionale continuità liquidatoria in termini di atto gestorio utile [continua ..]


4. I caratteri di sostenibilità della “continuità liquidatoria”

4.1. Quanto fin qui emerso dall’analisi delle regole di diritto comune, lascia evidenza delle condizioni minime che – in base agli artt. 2487, 1° comma, lett. c), e 2489, c.c. – rendono giuridicamente sostenibile nell’ambito del diritto societario la relazione tra stato di liquidazione di una società di capitali e continuità dell’im­presa. Abbiamo avuto modo di registrare, più precisamente, che la relazione è giuridicamente possibile nel nostro ordinamento se vi sia: (a) una diretta strumentalità – in termini vincolati di “utilità” – della continuazione dell’attività rispetto all’obiettivo della migliore e prioritaria soddisfazione dei creditori e, de residuo, dei soci; (b) un potere anche solo dei liquidatori – al netto dei pur possibili interventi autorizzativi dei soci – di decidere e porre in essere l’eccezionale atto gestorio “nuovo” costituito dalla particolare continuazione dell’impresa; (c) un piano della continuità liquidatoria predisposto dai liquidatori che preveda, tra l’altro, un termine di breve periodo entro il quale, in alternativa alla meno redditizia liquidazione atomistica dai tempi analoghi, venga assicurata la soddisfazione massima a tutte le parti interessate. 4.2. Tutto ciò, ai fini della presente indagine, già di per sé porta ad una prima e parziale conclusione, quella di non poter aderire all’indirizzo interpretativo giurisprudenziale dal quale abbiamo preso le mosse perché, con tutta evidenza, lo priva del suo argomento principale, se non proprio unico: quello della incompatibilità “sistematica” tra continuazione dell’impresa e stato di liquidazione. Tuttavia, per poter ragionevolmente sostenere la ordinaria praticabilità del concordato in continuità anche per una società in liquidazione è necessario approfondire ulteriormente l’indagine, sviluppandola anche sul diverso piano del diritto concorsuale per capire se, in buona sostanza, il sopravvenire di nuove e particolari esigenze di tutela e delle conseguenti regole finisca per rimettere in discussione la relazione o alcuno dei suoi tre caratteri di sostenibilità appena ricostruiti: una risposta negativa su ciascuno dei tre versanti, permetterebbe di poter concludere per la praticabilità del [continua ..]


5. Dalla “continuità liquidatoria” alla “continuità concordataria”

5.1. Si tratta, pertanto, di passare a verificare se la relazione fin qui ricostruita nell’ambito del diritto comune sia altrettanto sostenibile rispetto alla sua possibile diversa declinazione normativa, quella radicata nell’elemento di novità della fattispecie costituito dalla crisi dell’attività di impresa della società già in stato di liquidazione [27]. Lo stato di crisi dell’impresa, infatti, modifica sotto diversi aspetti non solo i criteri di condotta dei liquidatori ma anche, più radicalmente, lo stesso bilanciamento degli interessi meritevoli di tutela cui devono riferirsi nelle loro valutazioni ex art. 2489 c.c. [28]. Al di là di qualche residuo dubbio giurisprudenziale, infatti, non solo per costoro diventano prudenzialmente applicabili i criteri di gestione ispirati alla par condicio rispetto all’accertamento e al pagamento dei crediti [29] ma, qualora la crisi sia tanto grave da integrare insolvenza, si aggiunge il dovere di depositare tempestivamente – senza necessità di alcuna preventiva voice dei soci (statutaria o assembleare) – istanza per l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale [30], così trasformando la liquidazione da volontaria in giudiziale. Per altro verso, al rafforzamento delle tutele dei creditori – divenuti, appunto, concorrenti – corrisponde un notevole affievolimento delle prerogative dei soci della società in liquidazione che, oltre a restare sempre postergati nella soddisfazione dei loro crediti di ogni genere, vedono quasi del tutto ridotte le possibilità di incidere con atti di autonomia privata sui criteri della liquidazione divenuta, come visto, sostanzialmente “concorsuale” perché governata quanto meno dai principi del concorso se non, nei casi più gravi, anche dalle decisioni dell’Autorità giudiziaria e dagli organi della procedura. In questa diversa dimensione giuridica, però, per il liquidatore non viene meno l’art. 2489 c.c. perché è sempre chiamato a decidere – sempre in autonomia ma, con tutta probabilità, con parametri di valutazione più prudenti e procedure istruttorie più articolate – sugli “atti utili”, anche “nuovi”, alla migliore liquidazione. 5.2. Per altro verso, è noto, dal 2012 in poi il nostro ordinamento ha [continua ..]


6. Il concordato preventivo in c.d. “continuità aziendale” quale operazione gestoria “utile” alla liquidazione di una società di capitali: il potere di decidere il compimento del particolare “atto utile” alla liquidazione

6.1. Nel persistente silenzio della lettera della legge, il tema dell’ampiezza dei poteri liquidatori di fronte alla sopravvenuta crisi dell’impresa è stato incidentalmente affrontato nella ridotta prospettiva applicativa dell’art. 152 L. Fall., richiamato in applicazione al concordato preventivo dall’art. 161, 4° comma, L. Fall.; e ciò ancor prima dell’intervento del c.c.i.i. Quando, a seguito delle novelle normative del 2006, si è trattato di precisare la sfera soggettiva di applicazione della disposizione di legge (oggi trasfusa nell’art. 120-bis c.c.i.i.), si era giunti a interpretarla estensivamente, riferendo anche ai liquidatori – perché, come visto, unici titolari del potere gestorio durante lo stato di liquidazione della società di capitali – tutto quanto la lettera dell’art. 152, 2° comma, L. Fall. formalmente riferiva agli “amministratori” della società di capitali e, così, essenzialmente anche il potere di decidere ed eseguire tutto quanto necessario per l’accesso alla procedura di concordato [34]. Ciò essenzialmente perché plurime indicazioni letterali e sistematiche portavano ad attribuire a tale decisione la natura di giuridica di atto tipicamente gestorio del patrimonio sociale e non quella di “atto modificativo dei patti sociali e, più precisamente, delle regole della liquidazione della società” [35]. Questa lettura estensiva dell’art. 152, 2° comma, L. Fall. in un primo momento restava, però, minoritaria in dottrina e giurisprudenza che, per una società di capitali in liquidazione, prevalentemente richiedevano un apposito atto deliberativo dei soci, di portata sostanzialmente autorizzatoria, ritenendo i liquidatori della società di capitali carenti dei particolari poteri decisionali in ordine alla presentazione di una domanda di concordato preventivo [36]; tanto che non ritenevano possibile estendere ai liquidatori i poteri che l’art. 152 L. Fall. riferiva ai soli amministratori. Più precisamente, senza ragionare tanto attorno alla norma di diritto speciale per attribuire la corretta natura giuridica alla particolare decisione, questa lettura restrittiva maturava solo sulla base delle indicazioni che in quel momento venivano dal diritto comune societario nell’ambito del quale, come visto, [continua ..]


7. (Segue): la “sostenibilità” della continuità concordataria in termini di “utilità” per la migliore liquidazione

7.1. Nel sistema di regole proprie del concordato preventivo, per altro verso, costituiscono da sempre precetti inderogabili quelli della c.d. sostenibilità della continuità concordataria e della sua massima utilità possibile per i creditori concorrenti. Basta rileggere tanto l’art. 186-bis, ultimo comma, L. Fall. quanto, p.e., l’art. 44, 2° comma, lett. d), c.c.i.i. [42] per ritrovare anche nel diritto speciale concorsuale la regola della necessaria costante sostenibilità economica che qualifica, direi “tipicamente”, la continuità concordataria [43]. In poche parole, al manifestarsi del minimo rischio di pregiudizio per i creditori – da verificare costantemente – derivante dalla continuazione dell’impresa in concordato (p.e. squilibrio finanziario di breve periodo tra costi e ricavi della continuità con conseguente compressione della soddisfazione concorsuale), i Commissari giudiziali hanno da sempre il preciso obbligo di riferire al Tribunale perché blocchi la procedura e, soprattutto, quella continuità concordataria che – se non più in equilibrio patrimoniale – non ha più alcuna legittimazione giuridica dall’ordinamento perché, appunto, divenuta insostenibile rispetto agli interessi dei creditori cui è strumentale. La regola trova tradizionalmente applicazione, come detto, dall’inizio alla fine della procedura e, così, a partire sin dal primo momento della procedura segnato dal deposito del ricorso introduttivo, anche solo “prenotativo”, e fino all’omologazione del concordato approvato [44]: tanto che la sostenibilità economica può ragionevolmente dirsi – oggi ancor di più alla luce della sua espressa previsione nell’art. 87, 3° comma, c.c.i.i. quale necessario contenuto dell’attestazione [45] – caratteristica oggettivamente qualificante per la continuità concordataria. 7.2. Ad essa offre ragion d’essere – finendo, nella sostanza, per completare la caratterizzazione della continuità concordataria – il vincolo, altrettanto imprescindibile, della massima utilità possibile per i creditori concorrenti. La certezza di tale condizione per l’intera durata della procedura – e anche oltre, in sede di esecuzione del concordato omologato – è imposta [continua ..]


8. (Segue): la prospettiva temporale vincolata della continuità concordataria tra limiti di attestabilità e irrilevanza della revoca dello stato di liquidazione

8.1 Neanche i risultati dell’ultima verifica di compatibilità di fattispecie tra (originaria) continuità liquidatoria e (successiva) continuità concordataria mettono in discussione la sostenibilità giuridica nel nostro ordinamento della relazione tra stato di liquidazione e continuazione dell’impresa e, di conseguenza, la praticabilità del concordato preventivo in continuità aziendale pure per una società di capitali in formale stato di liquidazione. Anche nella particolare dimensione delle regole concorsuali, infatti, il diritto positivo non trascura di fissare una prospettiva temporale vincolata della continuità, funzionalizzata alla migliore soddisfazione dei creditori concordatari e indipendente dalla sorte del contratto di società che lega i soci della società ricorrente per il concordato preventivo; insomma offre riscontro anche all’ultimo dei tre elementi peculiari che abbiamo visto caratterizzare la possibile relazione sul piano del diritto societario [49]. Tuttavia, più che attraverso la presa d’atto di tale circostanza maturata soprattutto nell’interpretazione giurisprudenziale, il risultato potrà dirsi definitivamente acquisito se vi sarà spiegazione della compatibilità di tali vincoli temporali anche con quelle regole particolari dedicate alla ricostituzione del capitale minimo delle società di capitali che scelgono il concordato preventivo quale strumento di soluzione della crisi. Si tratta, infatti, a prima vista di regole che parrebbero imporre a qualsiasi società ricorrente l’eliminazione immediata della causa di scioglimento (e, quindi, a prima vista, anche la revoca dello stato di liquidazione), subito dopo l’omologazione del concordato preventivo approvato e non invece al termine dell’esecuzione del concordato omologato, quando la continuità concordataria avrà esaurito la sua funzione con il pagamento dei creditori, attestato come il migliore possibile in quel­l’arco temporale definito sin dall’inizio. 8.2. Prima di poter affrontare tale ultimo profilo problematico, vale comunque registrare che, è noto, non c’è una specifica norma di legge che imponga un limite temporale alla continuità concordataria. Tale limite temporale è stato ricavato dai vincoli che soprattutto il diritto giurisprudenziale ha creato [continua ..]


NOTE