Il contributo esamina la controversa tematica della possibilità, per il debitore, di predisporre un piano di concordato preventivo che contempli il pagamento dei creditori privilegiati da un lato con mezzi diversi dal denaro ovvero, dall’altro lato, oltre il termine legislativamente previsto. Dopo aver esaminato i diversi orientamenti sul punto, il testo analizza le conseguenze, ove si ammettesse la possibilità di dilazione unilaterale delle tempistiche di pagamento dei creditori privilegiati, sul diritto di voto ad essi (eventualmente) spettante. Da ultimo, il contributo valuta le conclusioni raggiunte alla luce della disciplina prevista dal nuovo, seppur differito, Codice della Crisi e dell’Insolvenza.
The paper focuses on the possibility for the debtor to draft a pre-bankruptcy agreement plan which envisages the payment of secured creditors, on the one hand with non-cash means and, on the other hand, beyond the timing provided for by the law. Following such analysis, assuming the abovementioned hypothesis the paper moves to the consequences on the privileged creditors’ voting rights, if any. Lastly, the paper evaluates the outcomes of the analysis in the light of the new regulations provided for by the (deferred) Codice della Crisi e dell’Insolvenza.
Keywords: pre-bankruptcy agreement, secured creditors, non-cash payment, more-than-one-year deferred payment, voting rights.
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1. Premessa - 2. Il soddisfacimento dei creditori privilegiati con mezzi diversi dal denaro - 3. Il soddisfacimento dilazionato dei creditori privilegiati - 3.2. Pagamento integrale, soddisfacimento integrale e soddisfacimento non integrale - 3.3. La dilazione dei creditori privilegiati nel concordato preventivo in generale, nel concordato preventivo liquidatorio … - 3.4. (Segue): … e nel concordato preventivo con continuità aziendale, in particolare - 4. Il voto dei creditori prelazionari unilateralmente dilazionati: conseguenze di una tesi ammessa (ma non concessa) - 4.2. L’“an” del diritto di voto - 4.3. Il “quando” e il “quomodo” del diritto di voto - 4.4. Il “quantum” del diritto di voto - 5. Conclusioni - NOTE
L’istituto del concordato preventivo, il solo tra gli strumenti “finalizzati alla risoluzione concordata delle crisi d’impresa” a preesistere alla riforma del 2005-2006, è stato più volte considerato (non a torto, in taluni suoi aspetti) anacronistico. Non è infatti revocabile in dubbio che tale procedura concorsuale presenti evidenti profili di rigidità quali, in primo luogo, il penetrante controllo da parte dell’autorità giudiziaria. Questo aspetto, unitamente ai crescenti costi connessi o comunque derivanti dalla procedura stessa, ha contribuito a rendere il concordato preventivo sempre meno appetibile per l’imprenditore che versi in stato di crisi [1]. Da diversa prospettiva, per i creditori l’appetibilità del concordato preventivo è senza dubbio diminuita a causa delle percentuali di soddisfacimento talvolta irrisorie che, almeno fino ai più recenti interventi normativi, venivano di frequente offerte. D’altro canto, il concordato preventivo continua ad avere il merito di essere il luogo di incontro e di sintesi degli interessi, di frequente confliggenti, del debitore concordatario e dei relativi creditori. Alcuni aspetti e caratteristiche (in massima parte sostanziali) propri del concordato preventivo sono pertanto meritevoli di essere salvaguardati. Tale salvaguardia, come evidente, non può che passare tuttavia da alcune “interpolazioni” della concezione ortodossa del concordato preventivo. In questo breve scritto verranno trattate le deviazioni dalla via maestra che il debitore può operare (legittimamente o meno, sarà da valutare nel prosieguo) rispetto al canonico corso di un concordato preventivo, in particolar modo con riferimento alle modalità e ai tempi di soddisfacimento dei creditori.
Uno degli aspetti di particolare rigidità presenti nella disciplina del concordato preventivo, e in particolar modo del concordato preventivo di tipo liquidatorio, è la necessità che, ai sensi dell’art. 160, 4° comma, L. Fall. (come modificato dal D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni in L. 6 agosto 2015, n. 132), ai creditori chirografari venga garantita una soddisfazione almeno pari al 20% dell’ammontare totale dell’indebitamento chirografario del debitore concordatario. Tenendo a mente come, nella quasi totalità dei casi, il fabbisogno concordatario ecceda la somma tra l’attivo concordatario immediatamente distribuibile e quello comunque realizzabile, appare evidente che il rispetto del requisito sopra illustrato risulta quanto mai gravoso. Un tentativo di superamento di tale ostacolo, nell’ottica di un miglioramento delle possibilità di ammissione e successo del concordato, è stato operato ipotizzando il pagamento dei creditori privilegiati con mezzi diversi dal denaro. Secondo l’orientamento che ha proposto tale soluzione, il soddisfacimento dei creditori (nel caso di specie, privilegiati), potrebbe aversi mediante “attribuzioni di quote, azioni od obbligazioni stimate appositamente dal professionista di cui agli artt. 160 e 161 L. Fall.” [2]. A tale stregua, sarebbe del pari ipotizzabile il perfezionamento della ristrutturazione aziendale o della liquidazione mediante l’attribuzione a titolo gratuito ai creditori di strumenti finanziari partecipativi emessi ai sensi dell’art. 2346, 6° comma, c.c., anche in coerenza con una certa tendenza, nella prassi, a collocarli sempre più spesso al centro delle operazioni di restructuring latamente intese [3]. Nel caso di specie, l’attribuzione di strumenti finanziari partecipativi ai creditori si qualificherebbe quale adempimento mediante datio in solutum, ferma restando la ovvia previsione, nel regolamento degli strumenti finanziari stessi, dell’obbligo per il debitore di distribuire determinati flussi esistenti in corso di piano o, più di frequente, oltre l’orizzonte di piano, in favore dei titolari degli strumenti finanziari [4]. Con tale espediente, il fabbisogno concordatario risulterebbe diminuito di un ammontare corrispondente all’indebitamento il cui soddisfacimento avrà formalmente luogo [continua ..]
3.1. Il “tempo” del concordato Altro elemento di rigidità della procedura di concordato preventivo è senza dubbio rappresentato dalla tempistica entro cui deve necessariamente essere completata l’esecuzione del concordato. Nello specifico, mantenendo come sistema di riferimento una situazione tale per cui il fabbisogno concordatario superi l’ammontare delle risorse da mettere a disposizione dei creditori, la necessità che il concordato venga eseguito entro un certo intervallo di tempo può evidentemente comportare una differenza nelle percentuali di soddisfacimento garantite ai creditori e, pertanto, rappresentare il discrimine tra un concordato approvato o meno dai creditori (nonché, in casi estremi, tra l’ammissione o meno alla procedura): è infatti evidente che distribuire ai creditori la medesima somma nell’arco di un anno ovvero nell’arco di cinque anni abbia differenti impatti sulla situazione finanziaria del debitore concordatario. In merito alle tempistiche del concordato, il primo aspetto da analizzare è tuttavia senza dubbio se le stesse debbano essere oggetto di sindacato da parte del giudice. Sul punto, a fronte di una dottrina orientata nel senso di non far discendere dal concordato alcun impegno sulle tempistiche in capo al debitore [10], la Corte di Cassazione, nella nota pronuncia a Sezioni Unite n. 1521/2013, ha invece affermato che l’aspetto temporale “compone la causa concreta del concordato” e dovrà pertanto essere oggetto del vaglio giudiziale [11]. Assunto dunque, anche in considerazione dell’autorevolezza della pronuncia a Sezioni Unite, che il “tempo del concordato” rientri tra gli aspetti su cui si deve attestare il controllo del tribunale, è opportuno indagare se il termine entro cui il concordato deve essere integralmente eseguito sia un termine fisso o meno. Un certo orientamento della giurisprudenza di merito ha sostenuto che esista una stretta connessione tra la tempistica della procedura di concordato e la “ragionevole durata del processo” stabilita dall’art. 2 della L. 24 marzo 2001, n. 89, come modificata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (c.d. “Legge Pinto”), secondo cui “si considera rispettato il termine ragionevole se il procedimento di esecuzione forzata si è concluso in tre anni, e se la procedura concorsuale si [continua ..]
Tenendo a mente quanto delineato nel precedente paragrafo, può quindi assumersi che non esista un dettato normativo espresso in merito alla necessaria durata di un piano di concordato: cionondimeno, appare evidente che il piano non possa avere durata illimitata e che, dunque, una limitazione temporale, seppur basata sul concreto contenuto del piano stesso, debba essere individuata. Alla luce di ciò, occorre indagare se il pagamento dei creditori privilegiati possa essere dilazionato e, per quanto qui interessa, se tale dilazione possa essere unilateralmente prevista dal debitore nel piano di concordato. La disamina della tematica non può peraltro prescindere dalla enucleazione di tre nozioni ulteriori: il “pagamento integrale”, il “soddisfacimento integrale” e il “soddisfacimento non integrale”. Tentando di operare una sintesi tra le diverse sfumature conferite dagli interpreti a tali concetti, si può concludere che si intende per pagamento integrale il “pagamento effettuato per intero, con denaro ed immediatamente, nella dilazione prevista dai tempi tecnici della procedura” [22]. Il diverso concetto di soddisfacimento integrale si qualifica invece come una modalità di estinzione dell’obbligazione concordataria distinta dal pagamento integrale [23], che si verifica qualora il debitore “si obblighi a pagare i privilegiati al 100% in più anni, con versamento anche degli interessi” [24] legali derivanti dal ritardo nel pagamento; per esclusione, si avrà invece soddisfacimento non integrale qualora la proposta del debitore sia priva di previsioni in merito al pagamento dei predetti interessi [25]. Tanto il soddisfacimento integrale quanto il soddisfacimento non integrale possono pertanto implicare “degrado temporale” [26] del pagamento dei creditori muniti di titolo di prelazione, risiedendo la differenza tra le due fattispecie nella corresponsione o meno degli interessi compensativi al tasso legale calcolati con riferimento al periodo di dilazione [27]. Per ragioni di semplicità, il paragrafo che segue conterrà l’applicazione di tale analisi all’istituto del concordato preventivo liquidatorio, rimandando a un successivo paragrafo l’applicazione all’istituto del concordato preventivo con continuità aziendale.
Prima della “stagione delle riforme” della legge fallimentare iniziata nel 2005, la giurisprudenza era concorde nel ritenere che, nel contesto della procedura di concordato preventivo liquidatorio, i creditori privilegiati dovessero inderogabilmente essere pagati integralmente e immediatamente a seguito dell’omologazione del concordato preventivo [28]; sul punto, è peraltro appena il caso di rilevare che il requisito dell’immediatezza è necessariamente relativo, in quanto connesso ai tempi tecnici della liquidazione [29]. Con la modifica dell’art. 160, 2° comma, L. Fall. ad opera del D.Lgs. n. 196/2007, è stato tuttavia aperto uno spiraglio alla possibilità, per il debitore concordatario, di prevedere il pagamento non integrale dei creditori muniti di titoli di prelazione. Tale riformata disposizione è stata intesa dalla giurisprudenza di legittimità come avente “natura innovativa e … non interpretativa” [30], ed è stata considerata, insieme agli artt. 182-ter e 186-bis L. Fall., quale fondamento teorico dell’ammissibilità della dilazione del pagamento dei creditori prelazionari nel contesto della procedura di concordato preventivo. Dai tre presupposti sopra enucleati, la Corte desume che “se la regola generale è quella del pagamento non dilazionato dei crediti privilegiati, allora il pagamento dei crediti medesimi con dilazione superiore a quella imposta dai tempi tecnici della procedura (e della stessa liquidazione, in caso di concordato c.d. liquidatorio) equivale a soddisfazione non integrale di essi” possibile, come visto, alla stregua dell’art. 160, 2° comma, L. Fall. La posizione assunta dai Giudici di Legittimità ha come prevedibile sollevato dure critiche, tanto tra i giudici di merito [31] quanto tra i commentatori, i quali hanno ritenuto che la deriva assunta dalla Suprema Corte rappresenti addirittura una “grave responsabilità [per] aver proposto … una soluzione che si pone chiaramente extra legem, così esponendosi ad inevitabili critiche sulla scarsa tenuta interpretativa delle sue decisioni” [32]. Per poter valutare la meritevolezza delle diverse posizioni assunte, è senza dubbio necessario analizzare singolarmente gli elementi ritenuti dalla Suprema Corte come fondamentali per ammettere la dilazione del pagamento dei [continua ..]
Una volta affrontata la posizione di dottrina e giurisprudenza in merito all’ammissibilità del pagamento dei creditori prelazionari dilazionato in misura superiore ai canonici tempi tecnici di svolgimento della procedura nel concordato preventivo (in generale) e nel concordato preventivo liquidatorio (in particolare), occorre indagare quali siano stati gli orientamenti sviluppatisi in merito al concordato preventivo con continuità aziendale disciplinato dall’art. 186-bis L. Fall. Tale analisi assume peculiare rilevanza anche considerato che il legislatore ha in effetti aperto uno spiraglio [46] (per vero non particolarmente chiaro [47]) alla possibile dilazione dei creditori prelazionari: l’art. 186-bis, 2° comma, lett. c), L. Fall., prevede infatti che “il piano [possa] prevedere, fermo quanto disposto dall’articolo 160, secondo comma, una moratoria sino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione. In tal caso, i creditori muniti di cause di prelazione di cui al periodo precedente non hanno diritto al voto”. Sul punto, la questione dirimente è senza dubbio se la disposizione debba considerarsi avente carattere precettivo, e dunque sia atta a consentire la moratoria infrannuale dei creditori prelazionari e ad escludere, implicitamente, ogni moratoria di durata superiore, ovvero se abbia ad oggetto il diritto di voto, da escludersi per i creditori prelazionari dilazionati per periodi inferiori all’anno (in ragione della sostanziale indifferenza degli stessi alla moratoria, con il rischio che esprimano quello che è stato definito “voto irresponsabile”) e da consentirsi per le dilazioni ultrannuali, implicitamente ritenute legittime [48]. Come si può facilmente immaginare, tale confronto ha condotto allo sviluppo di due distinti e contrapposti orientamenti dottrinari. La tesi più liberista, avvalorata anche da una parte della giurisprudenza di legittimità [49], ha fatto discendere la pretesa ammissibilità di un piano di concordato che preveda la dilazione ultrannuale dei creditori prelazionari da due elementi: la ratio legis e l’interpretazione a contrario. Principiando da quest’ultima, è stato affermato da più di un interprete che [continua ..]
4.1. Inquadramento normativo Si ammetta ora per un momento – ai soli fini della presente trattazione – che sia possibile la unilaterale previsione, da parte del debitore concordatario all’interno del piano di concordato, di un soddisfacimento dei creditori con dilazione rispetto – a seconda dei casi – ai tempi di liquidazione del bene [68] o al limite annuale previsto dall’art. 186-bis L. Fall. [69]. Assumendo tale ipotetica situazione, non è possibile esimersi dall’indagare se i creditori prelazionari dilazionati debbano o meno essere chiamati ad esprimersi sulla proposta concordataria attraverso l’esercizio del diritto di voto. Sul punto, la normativa di riferimento è rappresentata senza dubbio, oltre che dal già citato art. 186-bis L. Fall., dall’art. 177 L. Fall., che disciplina la possibilità dei creditori di esprimere il proprio voto in sede di adunanza. La prima delle disposizioni citate esclude, expressis verbis, il voto dei creditori prelazionari dilazionati entro il periodo di un anno dall’omologa, mentre la seconda esclude dal voto i creditori prelazionari che non rinuncino al titolo di prelazione dagli stessi vantato. La ratio di tali esclusioni risiede in un condivisibile principio: è stato infatti ritenuto che la proposta di concordato sia sostanzialmente indifferente per i creditori prelazionari soddisfatti integralmente o, al più, dilazionati entro l’anno, con conseguente rischio dell’espressione di un voto irresponsabile da parte degli stessi [70]. A tal proposito, è inoltre opportuno rilevare che, secondo parte della dottrina, tale indifferenza si riscontra anche in caso di dilazione dei creditori prelazionari e contestuale pagamento agli stessi degli interessi legali relativi al periodo di dilazione [71]. Fermi i presupposti sopra delineati, nei paragrafi che seguono si tenterà di chiarire se i creditori prelazionari dilazionati siano o meno ammessi ad esprimere il proprio voto in merito alla proposta di concordato e, nel caso, in che misura esso sia loro riconosciuto e con quali tempi e modalità possa essere espresso.
Poste le doverose basi normative, è opportuno dar conto dell’esistenza di due orientamenti in merito all’esercizio del diritto di voto da parte dei creditori prelazionari dilazionati; tali orientamenti sono, peraltro, strettamente legati alle concezioni di pagamento, soddisfacimento integrale e soddisfacimento non integrale dei creditori concordatari [72]. In particolare, secondo un orientamento più restrittivo, il diritto di voto dovrebbe essere concesso ai creditori prelazionari soltanto in caso di degrado quantitativo del loro credito, in quanto esclusivamente in tale ipotesi ci si troverebbe di fronte a un soddisfacimento non integrale dello stesso. Applicando le categorie più sopra ricordate, dunque, i creditori prelazionari dilazionati dovrebbero poter esercitare il diritto di voto in sede di adunanza creditoria soltanto qualora la loro dilazione non sia accompagnata dalla corresponsione agli stessi degli interessi compensativi al tasso legale per il periodo di dilazione [73]: in tale ipotesi, infatti, questi subirebbero una effettiva decurtazione delle somme loro astrattamente spettanti. Un secondo orientamento ha di contro rilevato che sarebbe alquanto miope ritenere che il “pagamento non integrale” richiesto dall’art. 177 L. Fall. per la concessione del diritto di voto ai creditori prelazionari debba essere inteso come il solo pagamento “quantitativamente” non integrale. Seguendo tale impostazione, “nell’ipotesi di pagamento dilazionato, il diritto di credito subisce un’alterazione qualitativa che, se può dirsi neutra sul piano economico laddove vengano riconosciuti interessi per l’intero arco della dilazione (venendo a mancare, in tale caso, il danno da ritardo), ha comunque un rilievo finanziario suscettibile di incidere significativamente sull’interesse del creditore. In tal caso, la proposta concordataria cessa di essere neutra nei suoi confronti, determinando l’insorgere di un legittimo interesse del creditore ad interloquire con la stessa mediante l’attribuzione del diritto di voto” [74]. In altri termini, la corresponsione degli interessi legali per il periodo dilazione potrebbe non comportare, per il creditore, un soddisfacimento uguale o equivalente a quello che avrebbe avuto in assenza di dilazione [75]: in tal caso, dunque, sarà necessario che lo stesso esprima, tramite l’esercizio [continua ..]
Accedendo alla tesi che concede il diritto di voto ai creditori dilazionati prelazionari, ulteriore elemento da indagare è quale sia il frangente temporale (il “quando”) in cui tale esercizio di voto debba avvenire e le modalità concrete (il “quomodo”) che lo debbono regolare. In particolare, la questione – innegabilmente complessa [76] – si incentra sulla necessità o meno per il debitore, nelle circostanze più sopra rappresentate, di acquisire il consenso dei creditori dilazionati in un momento antecedente alla presentazione della domanda. La necessità di acquisizione di un previo consenso avrebbe, del resto, l’effetto di escludere i creditori prelazionari dall’espressione del voto in sede di adunanza, di tal che il debitore dovrebbe ottenere il consenso dei creditori prelazionari dilazionati prima dell’adunanza e successivamente, nell’adunanza, il consenso della restante porzione del ceto creditorio [77]. Tale impostazione non appare tuttavia, almeno a parere di chi scrive, condivisibile. Da un primo, concreto punto di vista, nel contesto di una dilazione disposta unilateralmente dal debitore nel piano di concordato non si vede la ragione per ottenere il consenso dei creditori dilazionati in un momento diverso da quello dell’effettiva approvazione del concordato. Inoltre, anche dal punto di vista della tutela del creditore prelazionario dilazionato, la tesi dell’espressione del voto nel contesto dell’adunanza si lascia preferire. Se da un lato è infatti innegabile che il creditore prelazionario dilazionato che si trovi a esprimere il proprio voto ai sensi dell’art. 177 L. Fall. possa finire “annegato nel mare dei consensi” dei creditori chirografari (di frequente più numerosi), dall’altro lato tale modalità di esercizio del diritto di voto gli conferisce la possibilità, ricorrendone i presupposti richiesti dalla legge, di sottoporre al tribunale il giudizio di convenienza della proposta concordataria rispetto alle alternative concretamente praticabili ai sensi dell’art. 180, 4° comma, L. Fall., restituendo così un certo “peso” al proprio voto [78].
Una volta chiariti gli orientamenti di dottrina e, ove possibile, giurisprudenza in merito all’attribuzione e alle modalità di esercizio del diritto di voto, bisogna inevitabilmente affrontare un ultimo corollario della tesi qui “ammessa ma non concessa” e domandarsi quale sia l’importo in corrispondenza del quale i creditori prelazionari dilazionati esercitino il diritto di voto. La questione verrà esaminata, considerato che “nel più sta il meno”, accedendo alla tesi secondo cui i predetti creditori siano ammessi a esercitare il diritto di voto sia in caso di soddisfacimento integrale (e quindi siano soddisfatti con dilazione, con corresponsione di interessi compensativi al tasso legale per il periodo di dilazione) sia in caso di soddisfacimento non integrale (e quindi siano soddisfatti con dilazione e senza corresponsione dei predetti interessi compensativi). Anche in questo caso, come spesso accade data la complessità della materia in analisi, possono rinvenirsi differenti orientamenti. Un primo orientamento, sostenuto anche da una parte della giurisprudenza di merito e di legittimità, ha ritenuto che i creditori prelazionari dilazionati esercitino il diritto di voto per una parte del credito corrispondente alla perdita economica (ovverosia il danno) da questi subito in relazione al ritardo nell’ottenimento del pagamento dovuto ai sensi di quanto previsto nel piano di concordato [79]. Sul versante della giurisprudenza di legittimità, la Corte di Cassazione ha di recente utilizzato il principio espresso dall’art. 86 del Codice della Crisi e dell’Insolvenza (su cui si v. infra, par. 5) quale norma interpretativa, arrivando ad affermare che debba essere applicato un principio “di ‘attualizzazione’ dei pagamenti previsti dal piano concordatario, calcolati sul valore alla data di presentazione della domanda di accesso alla procedura concorsuale” [80]. La giurisprudenza di merito ha invece tentato di calare il principio poc’anzi enunciato nel caso concreto e ipotizzare possibili modalità di quantificazione della perdita economica derivante dalla dilazione. In particolare, è stato sostenuto che “il diritto di voto … non può mai essere relativo al credito per capitale ed interessi, ma unicamente corrispondente … al pregiudizio subito a causa della dilazione imposta, e [continua ..]
Non sarà senz’altro sfuggito all’attento lettore che, nel presente lavoro, alcun riferimento è stato fatto alla nuova disciplina prevista dal – pur differito – Codice della Crisi e dell’Insolvenza (“CCI”): ciò, principalmente, per poter delineare compiutamente il dibattito giurisprudenziale e dottrinario sviluppatosi intorno al tema in oggetto senza svelarne anzitempo il (probabile) finale. Arrivando, tuttavia, al finale, giova ricordare che l’art. 6, lett. g) della L. 19 ottobre 2017, n. 155, recante la “Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza” [88] prevedeva che il decreto delegato disciplinasse da un lato “il diritto di voto dei creditori con diritto di prelazione, il cui pagamento sia dilazionato, e dei creditori soddisfatti con utilità diverse dal denaro”, ammettendo quindi implicitamente la possibilità che il debitore inserisca tale previsioni nel piano di concordato e, dall’altro lato, la circostanza che “il piano possa contenere, salvo sia programmata la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussista la causa di prelazione, una moratoria per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca per un periodo di tempo anche superiore ad un anno, riconoscendo in tal caso ai predetti creditori il diritto di voto” [89]. Le istanze contenute nella legge delega si sono tradotte negli artt. 85, 5° comma, e 86 CCI. Nello specifico, in primo luogo l’art. 85, 5° comma, CCI prevede che “la formazione delle classi è obbligatoria … per i creditori che vengono soddisfatti anche in parte con utilità diverse dal denaro”, in tal modo tutelando la distinta posizione di tali creditori che, inseriti in autonoma classe, potranno “pesare” maggiormente nel contesto dell’adunanza creditoria e finanche sollecitare il Tribunale affinché compia la valutazione di convenienza in merito alla soddisfazione dagli stessi ritraibile dal concordato e la sua comparazione con le alternative concretamente praticabili ai sensi dell’art. 180, 4° comma, L. Fall. [90]; la consapevole scelta di tale impostazione è altresì confermata anche dalla Relazione Illustrativa al CCI, ove con riguardo alla norma in commento si afferma che “appare opportuno tenere distinte [tali [continua ..]