Il Diritto Fallimentare e delle Società CommercialiISSN 0391-5239 / EISSN 2704-8055
G. Giappichelli Editore

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Il danno liquidabile nelle azioni di responsabilita', tra criteri legali ed equità (di Nicola Rocco Di Torrepadula, Professore ordinario di Diritto commerciale nell’Università di Salerno)


Lo scritto si concentra sull’analisi della disposizione di cui all’art. 378 c.c.i.i. con cui è stato introdotto il 3° comma dell’art. 2486 c.c. che disciplina la quantificazione del danno liquidabile nelle azioni di responsabilità sociale. La ricostruzione, peraltro, non può prescindere dall’esposizio­ne dei termini dell’articolato dibattito che si è svolto nel tempo. L’obiettivo che ci si propone è, infatti, quello di verificare se la formulazione della nuova norma sia tale da consentire la risoluzione di un risalente problema, ovvero non determini l’innesto di ulteriori questioni interpretative.

The paper focuses on the analysis of the new third paragraph of article 2486 of the Italian Civil Code, as introduced by the recent Insolvency law comprehensive reform (Legislative Decree 12 January 2019, n. 14) with the provisions of its article 378, governing the quantification of damages within the liability actions against the directors. The issue raised a long and complex debate over time and, of course, references to it appear to be essential. The ultimate goal is to ascertain whether the new standard is capable to resolve the problem matter or rather it gives ground to additional issues of concern.

Keywords: corporation – liability action – settlement of damage

SOMMARIO:

1. Su alcuni punti di partenza - 2. Sui criteri per la liquidazione del danno - 3. (Segue): l'ipotesi intermedia: il criterio della c.d. differenza tra i patrimoni netti - NOTE


1. Su alcuni punti di partenza

Con l’obiettivo di risolvere un vecchio problema [1] il legislatore della recente riforma delle procedure concorsuali (D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) ha dettato una disposizione sulla quantificazione del danno da liquidare allorché si agisca per far valere la responsabilità sociale (recte: alcune responsabilità). Con l’art. 378 c.c.i.i. è stato introdotto il 3° comma dell’art. 2486 c.c., che, com’è noto, si occupa, nei primi due commi, dei compiti degli amministratori durante la fase di liquidazione delle società di capitali. Qualche utile riflessione può essere fatta al riguardo, per tentare di comprendere se il problema è stato risolto, oppure no, e qual è oggi la situazione che si è venuta a creare. Per esigenza di sintesi occorre fare una breve premessa che, purtroppo, non può che basarsi su alcuni assiomi. Innanzitutto, il fatto che sulla questione sia intervenuto il legislatore che ha riformato le procedure concorsuali indurrebbe a pensare che si tratti della quantificazione del danno qualora si agisca in sede concorsuale. In realtà non è del tutto esatto. La disposizione citata (art. 2486, 3° comma, c.c.), come si vedrà, regola in modo disomogeneo la liquidazione del danno sia in sede ordinaria, sia in sede concorsuale. Il che non deve apparire strano se si condivide l’idea di fondo che la liquidazione giudiziale (come prima accadeva per il fallimento) non genera di per sé una nuova responsabilità degli organi sociali, ma provvede a spostare, attraverso una disposizione dal contenuto prettamente processuale, la legittimazione attiva a beneficio del curatore (art. 2394-bis c.c. ed art. 255 c.c.i.i., ex art. 146, 2° comma, L. Fall.). In sintesi, viene confermato il principio che tutto ciò che si può fare fuori, si può fare all’interno della procedura concorsuale. Come dire, quindi, che quest’ultima non aggrava la posizione di chi ha gestito male la società, ma fa scattare, più o meno automaticamente, le responsabilità [2]. Si può affermare, quindi, che il danno che gli amministratori sono tenuti a risarcire non è costituito dall’insolvenza in sé, ma dalle conseguenze derivanti dal loro comportamento illecito [3]. Ecco che allora il tema va riportato nel suo giusto [continua ..]


2. Sui criteri per la liquidazione del danno

Fatte queste premesse, che come anticipato risultano in buona parte ovvie, ci si può addentrare nella questione specifica. Essa ruota intorno alla difficoltà pratica che s’incontra molto spesso nell’identificare il danno che è connesso al comportamento illecito degli amministratori. Difficoltà che non viene meno anche a voler prestare massima attenzione alla regola dell’effettività ed al nesso di causalità che lega il comportamento al danno. Questi ultimi due elementi servono proprio a ricercare, con un certo grado di affidabilità, gli atti o le condotte che realmente hanno prodotto il danno, ma che non sempre permettono di arrivare a quantificare il danno [15]. In questa situazione di grande problematicità sono state elaborate in sede concorsuale (luogo d’elezione primario della responsabilità degli amministratori) varie teorie che, per un verso o per un altro, hanno mostrato gravi difetti e, perciò, hanno indotto il legislatore ad intervenire. Come si ricorderà, è stato utilizzato in passato, ad esempio, il criterio dell’ammon­tare del passivo accertato in sede fallimentare [16], ritenendo, cioè, che il danno da liquidare nelle azioni di responsabilità consistesse in questo. Il che è avvenuto senza tener conto che il passivo accertato equivale ad una somma che contiene varie voci, molte delle quali non hanno nulla a che vedere con la presunta attività illecita degli amministratori (e, quindi, prive di nesso di casualità). Si tratta di un criterio che porta, in concreto, a rendere gli amministratori colpevoli quali soggetti illimitatamente responsabili del passivo della società, così traslando su di loro tutto il rischio d’impresa [17]. A questo criterio ne sono seguiti altri, come quello del c.d. deficit fallimentare [18], quello della riclassificazione delle poste di bilancio [19], e quello della differenza tra i netti patrimoniali [20]. Tutti, però, caratterizzati da qualche difetto. Per tentare di portare la questione nella giusta direzione vanno posti alcuni punti fermi. Per prima cosa va detto che la soluzione su come liquidare il danno risulta semplice per le due ipotesi estreme, mentre è particolarmente difficile per l’ipotesi intermedia [21]. La prima ipotesi estrema, che si può definire di [continua ..]


3. (Segue): l'ipotesi intermedia: il criterio della c.d. differenza tra i patrimoni netti

Vi è, infine, la terza ipotesi che è quella intermedia, che si può definire di “relativa incertezza”, e che comprende tutti gli eventi in cui il danno non sia liquidabile secondo le regole ordinarie (artt. 1218 e 1223 ss. c.c.). Com’è evidente, si tratta di un’ampia categoria in cui sono ricompresi i casi incerti rispetto ai quali, comunque, esistono e sono utilizzabili le scritture contabili. Per queste situazioni il Legislatore ha scelto il criterio della c.d. differenza dei patrimoni netti. Per precisione è prevista, come sempre, l’applicazione delle regole ordinarie in virtù della salvezza contenuta all’inizio del 3° comma dell’art. 2486 c.c., e, solo in subordine, è permesso l’uso di questo criterio. Si è detto che esso dà vita ad una presunzione relativa [44]. Si è affermato, anche, che il criterio della c.d. differenza dei patrimoni netti costituirebbe il criterio principale, dato che nella sequenza del 3° comma dell’art. 2486 c.c. è posto prima del già visto criterio del c.d. deficit fallimentare. L’affermazione, però, va chiarita, nel senso che tra il primo criterio e quello del c.d. deficit fallimentare non vi è alcun rapporto. Entrambi si applicano per l’ipotesi di illegittima prosecuzione dell’attività. Il secondo, tuttavia, opera solo nel caso di pro­cedura concorsuale e sempre che manchino le scritture contabili. Il primo, invece, è utilizzabile sempre, anche al di fuori delle procedure concorsuali, purché, ovviamente, esistano le scritture contabili. E quindi, non si può parlare di rapporto gerarchico fra criteri, ma di situazioni diverse. Cosa prevede il criterio della c.d. differenza tra i patrimoni netti? Qualora, appunto, siano utilizzabili le scritture contabili il danno, se non è possibile quantificarlo in altro modo, si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto della società fissato alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o si è aperta la procedura concorsuale, e quello fissato alla data in cui si è verificata la causa di scioglimento (art. 2484 c.c.) [45]. Al risultato che così viene raggiunto vanno detratti, poi, i costi “normali” successivi alla [continua ..]


NOTE