Il Diritto Fallimentare e delle Società CommercialiISSN 0391-5239 / EISSN 2704-8055
G. Giappichelli Editore

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Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche* (di Stefano Ambrosini)


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SOMMARIO:

1. Crisi e insolvenza nell'attuale disciplina concorsuale. - 2. La nozione di insolvenza nella più recente giurisprudenza di legittimità. - 3. Il dibattito sulla c.d. insolvenza prospettica. - 4. La distinzione fra insolvenza e crisi nel nuovo Codice e il presupposto oggettivo dei vari istituti. - 5. Segue. L’individuazione del presupposto oggettivo delle procedure di allerta e di composizione assistita. - 6. Considerazioni conclusive: alterità concettuale sul piano teorico e profili di 'sincretismo' dal punto di vista applicativo. - NOTE


1. Crisi e insolvenza nell'attuale disciplina concorsuale.

Fino a circa tre lustri fa, la disciplina tuttora vigente non conosceva la nozione di crisi, bensì solo quella di insolvenza, che in base a quanto disposto dall’art. 5 l. fall. può definirsi, notoriamente, come l’impossibilità strutturale (vale a dire non meramente transitoria), da parte dell’imprenditore commerciale, di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni.[1] La riforma del 2005 ha stabilito che può accedere al concordato preventivo il debitore in stato di “crisi”.[2] Questo termine, in precedenza estraneo alla legge fallimentare, non risultava peraltro inedito nel nostro ordinamento, se è vero che già nel 1979 la legge istitutiva dell’amministrazione straordinaria si riferiva, appunto, alle «grandi imprese in crisi»[3] e che il titolo IV del testo unico bancario del 1993 era – ed è tutt’oggi – rubricato «Disciplina delle crisi». Manca tuttavia, in questi come in altre previsioni normative ove il vocabolo “crisi” compare, una sua definizione; fa eccezione, per vero, il d.lgs. n. 122/2005, contenente disposizioni per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire[4], ma si tratta di disciplina settoriale, improntata a finalità specifiche e, come tale, insuscettibile di fornire una nozione dotata di valenza generale[5]. L’avvenuta sostituzione, quale presupposto del concordato, dell’insolvenza con lo stato di crisi è risultata foriera, ad un tempo, di delicati problemi interpretativi e di rilevanti implicazioni sistematiche. Il primo dubbio che si è posto all’indomani della novella (e dunque anteriormente all’introduzione del secondo comma dell’art. 160 ad opera della l. n. 51/2006) attiene al rapporto che intercorre tra i due concetti in questione. Secondo un autore, il concordato preventivo era divenuto uno strumento destinato all’imprenditore in crisi ma non ancora tecnicamente insolvente[6], con la conseguenza che, ove nel corso della procedura si fosse manifestata una situazione di vera e propria insolvenza, si sarebbe dovuto far luogo alla dichiarazione di fallimento. È questa un’impostazione che chi scrive ha già avuto modo di criticare, sulla scorta del rilievo che non vi era, nella riforma, alcuna traccia di una supposta volontà del legislatore di precludere al [continua ..]


2. La nozione di insolvenza nella più recente giurisprudenza di legittimità.

Proprio le “zone grigie” di cui si è detto in precedenza continuano a dar luogo a una produzione giurisprudenziale alquanto copiosa e variegata in tema di stato di insolvenza. I più recenti approdi dei giudici di legittimità, nondimeno, consentono di individuare con sufficiente perspicuità i tratti caratterizzanti la fattispecie in esame. Negli ultimi anni, infatti, la giurisprudenza di Cassazione in materia è andata progressivamente formandosi, pur al cospetto di situazioni concrete alquanto diversificate fra loro, avendo riguardo soprattutto a due aspetti: gli inadempimenti del debitore e il rapporto tra passività e attività di cui al bilancio dell’impresa. Sotto il primo profilo, la differenza fra inadempimento e insolvenza è stata da tempo chiarita: l’inadempimento, che è un fatto e non uno stato[25], rappresenta semplicemente uno degli eventi esteriori – in realtà il più importante e, non a caso, l’unico menzionato specificamente dall’art. 5 – attraverso cui può manifestarsi l’insolvenza[26]. L’inadempimento, peraltro, non è sempre rivelatore dell’insolvenza, come accade ogniqualvolta esso sia voluto dal debitore e non dovuto alla sua impossibilità di far fronte ai pagamenti, ovvero quando risulti di entità irrisoria e, come tale, privo di valenza sintomatica. Per converso, lo stato d’insolvenza – come ribadito ancora di recente dalla Cassazione – “non suppone, necessariamente, l’esistenza di inadempimenti, né è da essi direttamente deducibile, essendo gli stessi, se effettivamente riscontrati, equiparabili agli altri fatti esteriori idonei a manifestare quello stato, con valore, quindi, meramente indiziario, da apprezzarsi caso per caso, e con possibilità di escludersene la rilevanza ove si tratti di inadempimento irrisorio”.[27] Per quanto attiene all’aspetto dello “sbilancio” fra attività e passività dell’impresa, la giurisprudenza di legittimità afferma che la verifica dello stato d'insolvenza dell'imprenditore commerciale esige la prova di una situazione d'impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, “valutate nel loro complesso, in quanto già scadute [continua ..]


3. Il dibattito sulla c.d. insolvenza prospettica.

Le disquisizioni intorno al concetto di insolvenza attengono con sempre maggiore frequenza, da vari anni a questa parte, alla prospettiva temporale cui va improntato il suo l’accertamento. Sotto questo profilo, è da tempo oggetto di dibattito se l’apertura di una procedura concorsuale sia subordinata all’esistenza di una manifestazione attuale dell’incapacità patrimoniale dell’imprenditore[32] o se, al contrario, vi siano i margini per dichiarare il fallimento anche sulla scorta di un giudizio prognostico circa l’imminente evoluzione economica e finanziaria dell’impresa[33]. Come già in altra sede ricordato[34], quest’ultima tesi è andata progressivamente affermandosi, soprattutto in giurisprudenza. Basti ricordare che già nel 2008 il Tribunale di Roma ebbe a dichiarare l’insolvenza dell’Alitalia all’esito di una valutazione dichiaratamente prospettica, desumendo il requisito oggettivo di cui all’art. 5 l. fall. “dalle pesanti perdite dell’ultimo esercizio […]; dalle attuali stime relative all’andamento della compagnia nel terzo trimestre 2008, le quali evidenziano un patrimonio netto negativo; dall’indebitamento totale […], il tutto a fronte di strumenti finanziari ormai alquanto ridotti”; elementi, questi, cui si è aggiunto l’ulteriore e decisivo rilievo – anch’esso di carattere previsionale – che, “nelle attuali condizioni, non è possibile ipotizzare alcun miglioramento, […] per la notoria situazione derivante dal prezzo del petrolio e dall’attuale congiuntura economica”[35]. Ora, sebbene un’impostazione siffatta possa apparire – a tutta prima – obiettivamente eterodossa, essa rappresenta in realtà il logico corollario dell’orientamento da tempo prevalente[36] in materia, il quale, muovendo dal presupposto per cui l’insolvenza coincide – come già più volte ricordato – con la definitiva incapacità del debitore di far fronte alle proprie obbligazioni, pone al centro dell’indagine la situazione complessiva dell’impresa, cogliendone l’aspetto dinamico[37] e, conseguentemente, relegando in secondo piano l’individuazione del momento esatto in cui si appalesi l’impossibilità di adempiere. La [continua ..]


4. La distinzione fra insolvenza e crisi nel nuovo Codice e il presupposto oggettivo dei vari istituti.

In tema di presupposti oggettivi dei diversi istituti disciplinati nel nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, le rispettive definizioni sono contenute nell’art. 2, al cui disposto la Relazione illustrativa annette peraltro “finalità meramente esplicative o di sintesi”, lasciando così il debito margine all’attività interpretativa. La norma mantiene ferme, anzitutto, le due nozioni di insolvenza e di sovraindebitamento. La prima continua a consistere nello stato del debitore “che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. E il persistente utilizzo dell’avverbio “regolarmente” conferma che il debitore, per non essere considerato insolvente, deve poter adempiere le proprie obbligazioni (i) integralmente, (ii) tempestivamente e (iii) con mezzi normali. La scelta “conservativa” del legislatore appare tutto sommato opportuna, tenuto conto dei consolidati princìpi formatisi al riguardo in dottrina e in giurisprudenza (di cui si è ampiamente detto nei precedenti paragrafi), i quali offrono un livello di ragionevole certezza agli operatori economici. Quanto alla definizione di sovraindebitamento, essa riflette la nozione dell’istituto da tempo invalsa nell’uso comune, anche nel contesto unionale, riferendosi allo stato di crisi o di insolvenza del consumatore, del professionista, dell’imprenditore minore, dell’imprenditore agricolo, delle start-up innovative di cui al decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale, ovvero a liquidazione coatta amministrativa o ad altre procedure liquidatorie previste dal codice civile o da leggi speciali per il caso di crisi o insolvenza. Del tutto nuova è invece la nozione di crisi, che nella vecchia disciplina, a livello di individuazione del requisito oggettivo per l’accesso al concordato preventivo (e per l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti), rappresentava il genus – per l’appunto non definito – cui apparteneva la species insolvenza (art. 160, l. fall.) e che oggi acquista, di contro, una sua precisa autonomia [continua ..]


5. Segue. L’individuazione del presupposto oggettivo delle procedure di allerta e di composizione assistita.

Per quanto concerne le “procedure di allerta e di composizione assistita della crisi” (così recita la rubrica del Titolo II), il presupposto oggettivo pare risiedere nello stato di crisi e non in quello di insolvenza. Ciò si evince non solo dalla predetta rubrica, ma anche dalla disciplina degli strumenti di allerta, a cominciare dal tenore dell’art. 12 (“Nozione, effetti e ambito di applicazione”) e dell’art. 13 (“Indicatori della crisi”). Ai sensi del primo di tali articoli, infatti, gli strumenti di allerta sono finalizzati alla “tempestiva rilevazione degli indizi di crisi dell’impresa ed alla sollecita adozione delle misure più idonee alla sua composizione” (concetti assolutamente incompatibili con lo stato di insolvenza); ai sensi del secondo, costituiscono “indicatori di crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario”[58], rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi, oltre che delle prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso (o per i sei mesi successivi se la residua durata dell’esercizio è inferiore al semestre)[59]. E lo stesso dicasi per il disposto dell’art. 18: il terzo comma stabilisce l’archiviazione della segnalazione da parte dell’OCRI “quando ritiene che non sussista la crisi”; il comma successivo esordisce con “Quando il collegio rileva l’esistenza della crisi”. La scelta del legislatore, limitativa dal punto di vista del presupposto oggettivo, è stata immediatamente criticata da chi preconizza, a tale stregua, un’applicazione troppo circoscritta degli strumenti di allerta, anche in base all’esperienza maturata in materia di concordato preventivo, al quale nel passato hanno chiesto di accedere per lo più imprese già insolventi: “se ci si attiene strettamente alla definizione di crisi espressa dall’art. 2 del ‘Codice’ […] la composizione stragiudiziale della crisi, proprio perché diretta ad evitare l’insolvenza, è preclusa allorché l’insolvenza si sia ormai manifestata. […] ma se è così qui sta, a mio avviso, un errore di fondo che con questa interpretazione restrittiva, dovuta a un eccesso di sistemazione teorica e [continua ..]


6. Considerazioni conclusive: alterità concettuale sul piano teorico e profili di 'sincretismo' dal punto di vista applicativo.

Come si è già avuto modo di porre in luce, l’art. 2 del nuovo Codice detta due definizioni, rispettivamente di insolvenza e di crisi, che riflettono una marcata differenziazione sul piano concettuale. La prima è l’impossibilità del debitore a far fronte alle proprie obbligazioni, la seconda uno stato di semplice difficoltà economico-finanziaria, sufficientemente grave, tuttavia, da rendere probabile l’inverarsi dello stato di insolvenza. Nei paragrafi che precedono si è argomentato circa il fatto che il presupposto trasversalmente presente nelle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza di cui al Titolo III, negli strumenti di regolazione della crisi di cui al Titolo IV e la nella liquidazione giudiziale di cui al Titolo V (nei primi due casi eventualmente, nel terzo necessariamente) è lo stato di insolvenza, laddove il presupposto delle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi, coerentemente alla loro funzione di tempestiva emersione della crisi e di prevenzione dell’insolvenza, è (soltanto) lo stato di crisi. Quest’ultimo assunto, difficilmente confutabile alla stregua del replicato dato letterale e dell’enunciata intentio legis, finisce a ben vedere per essere messo in discussione dalla stessa disciplina positiva degli strumenti di allerta, come si evince dai convergenti rilievi esposti qui in appresso. Si è ricordato più volte che, ai sensi del predetto art. 2, l’insolvenza è “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori” e che, in base alla consolidata giurisprudenza formatasi con riferimento alla pressoché identica definizione del vigente art. 5, l’inadempimento può essere anche uno soltanto, o può venire “surrogato” da altri fatti esteriori. Senonché, ai sensi della terza parte del primo comma dell’art. 13 del Codice, costituiscono “indicatori di crisi ritardi nei pagamenti reiterati e significativi”. E’ dunque la legge stessa a ricollegare il concetto di crisi a quello di inadempimento; anzi, mentre l’art. 2, a proposito dell’insolvenza, si limita a parlare genericamente di “inadempimenti”, l’art. 13 postula, con riferimento allo stato di crisi, la loro reiterazione e significatività, mostrando quindi (all’apparenza) di [continua ..]


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