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Supersocietà di fatto e holding di fatto tra affectio societatis, affectio familiaris ed eterodirezione abusiva
Carlo Dubelli, Dottorando di ricerca, Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche nell’Università di Salerno
Il presente commento propone una rassegna critica degli orientamenti giurisprudenziali (di legittimità e di merito) e dottrinali in ordine alla configurabilità della c.d. “supersocietà di fatto” ed alla relativa prova, giocata sul terreno dell’affectio societatis, dell’affectio familiaris e del comune intento perseguito.
Dopo aver evidenziato le criticità derivanti dall’interpretazione offerta dalla Suprema Corte sulle capacità estensive dell’art. 147, L. Fall. – soprattutto alla luce del nuovo art. 256, quinto comma, Codice della Crisi – l’analisi si propone di delineare i confini tra il fenomeno della “supersocietà di fatto” e la distinta ipotesi di abuso di direzione e coordinamento (“holding di fatto”), onde recuperare la necessaria distinzione, sul piano rimediale, tra le due figure.
This commentary proposes a critical review of case law and doctrinal orientations regarding the configurability of the so-called “de facto super-company” and the related evidence, played out on the terrain of affectio societatis, affectio familiaris and common pursued intent.
After highlighting the critical issues arising from the interpretation offered by the Supreme Court on the extensive capabilities of Article 147 of the Bankruptcy Law – notably in light of the new art. 256, fifth paragraph, of the Code of Crisis – the analysis aims to delineate the boundaries between the phenomenon of the “de facto super-company” and the different hypothesis of abuse of direction and coordination (“de facto holding company”), in order to recover the necessary distinction, on the remedial level, between the two figures.
Keywords: Corporations – bankruptcy – de facto super companies – de facto holding companies – affectio societatis – abusive hetero-direction – insolvency.
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Commento
Sommario:
1. Il caso - 2. Sull’estensione del fallimento della società di capitali - 3. La prova della “supersocietà di fatto” - 4. Estensione del fallimento: un escamotage “all’italiana” per legittimare il “piercing the corporate veil”? - 5. Il nodo gordiano dell’ammissibilità della “supersocietà di fatto”: la Cassazione scioglie la riserva - 6. Evidenti “leggerezze” nella soluzione della Suprema Corte - 7. L’ostacolo rappresentato dall’art. 2361, 2° comma, c.c. - 8. Patologia genetica della (super)società di fatto, applicazione quoad effectum dell’art. 2332 c.c. e principio di effettività - 9. L’“addenda” del diritto vivente alle capacità espansive dell’art. 147 L. Fall.: la Consulta avalla la “soluzione efficientista” della Cassazione - 10. “Dalla compattezza inespugnabile della fortezza medievale alla fragilità del castello di sabbia”: i riflessi sul “dogma” della personalità giuridica - 11. Supersocietà di fatto e holding di fatto: profili differenziali. Il banco di prova rappresentato dall’affectio societatis e dal comune intento perseguito - 12. Gli orientamenti delle Corti di merito sull’individuazione del comune intento perseguito - 13. La prova della società di fatto in presenza di legami familiari tra i soci: affectio “societatis” o affectio “familiaris”? - 14. Possibili epifenomeni dell’abuso della personalità giuridica: la responsabilità da direzione e coordinamento come “nuova frontiera dell’attività recuperatoria” - 15. (Segue): perplessità in ordine alle possibili confusioni sul piano rimediale - 16. Rilievi critici conclusivi: l’art. 256 del Codice della Crisi e dell’Insolvenza come “ultimo tassello” nel percorso creativo della supersocietà di fatto - NOTE
1. Il caso La Corte d’Appello di Salerno, con la sentenza oggetto del presente breve commento, ha affrontato il tema della configurabilità (e, quindi, della fallibilità) della c.d. “supersocietà di fatto”, revocando il provvedimento con cui il Tribunale aveva dichiarato il fallimento della “Supersocietà di fatto irregolare” tra due società a responsabilità limitata (l’una già fallita, l’altra in liquidazione), nonché, il fallimento in estensione della seconda, ritenendo – alla luce degli elementi acquisiti – ricorrente nella fattispecie vagliata l’ipotesi di relazione verticale tra due società dirette e coordinate da un unico centro gestorio (c.d. “holding di fatto”), in cui l’una società rivestiva il ruolo strumentale di finanziatrice nell’esclusivo interesse dell’altra, fonte di responsabilità, al più, di tipo risarcitorio [continua ..]
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2. Sull’estensione del fallimento della società di capitali La sentenza in parola affida a due ragioni l’accoglimento del reclamo: la prima, relativa alla configurabilità – al di là degli stretti ambiti della fattispecie esaminata – della supersocietà di fatto (con richiamo alle posizioni ormai consolidate della giurisprudenza di legittimità e costituzionale sulle capacità estensive dell’art. 147, 5° comma, L. Fall.). Degna di notazione positiva è la scelta dei Giudici del reclamo di anteporre, per priorità logica, il riscontro alla censura relativa all’applicazione estensiva della disposizione di cui all’art. 147, 5° comma, L. Fall., avanzata dalla società reclamante, il cui fallimento era stato dichiarato dal Tribunale proprio in ragione della norma appena richiamata [1]. La Corte d’Appello – all’esito di un conciso, sia pur esaustivo excursus degli orientamenti assunti in tema dalla Suprema Corte [2] e dalla [continua ..]
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3. La prova della “supersocietà di fatto” La seconda sezione motiva del provvedimento passa in rassegna gli indici sintomatici dai quali il Tribunale aveva desunto la prova dell’esistenza della supersocietà di fatto [7], onde verificare la loro attitudine – in una valutazione coordinata e complessiva – a fornire la prova dell’occultamento dell’impresa comune. La Corte salernitana, invero – in via preliminare e propedeutica – ritiene necessario chiarire i caratteri distintivi della supersocietà di fatto occulta. Una doverosa puntualizzazione volta ad eliminare in nuce il rischio di confondere “il fenomeno dello svolgimento in comune di un’attività economica da parte di due società (organizzate orizzontalmente) con il ben diverso fenomeno dell’utilizzo strumentale di una società a vantaggio di un’altra (organizzate in senso verticale), attuato attraverso un’attività di direzione e coordinamento della seconda [continua ..]
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4. Estensione del fallimento: un escamotage “all’italiana” per legittimare il “piercing the corporate veil”? È ormai trascorso più di un lustro da quando la Suprema Corte è intervenuta in modo incisivo con una triade di sentenze [10] – ben si potrebbe dire “paradigmatiche” – sulla vexata quæstio della c.d. “supersocietà di fatto”, tema classico e caro alla dottrina giuscommercialistica italiana, all’interno della quale il dibattito era già stato ravvivato, all’alba del Nuovo Millennio, dalle novelle al Codice Civile ed alla Legge Fallimentare nelle more intervenute [11]. La tematica – specchio fedele dell’evoluzione del sistema ordinamentale (e, prima ancora, economico-imprenditoriale) – si innesta nel complesso ordito dell’“ampia e diversificata casistica in cui un imprenditore, individuale o collettivo, domina una o più società di capitali per abusare della personalità giuridica e della responsabilità limitata” [12], [continua ..]
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5. Il nodo gordiano dell’ammissibilità della “supersocietà di fatto”: la Cassazione scioglie la riserva È stata, quindi, la Suprema Corte – con la nota sentenza n. 1095/2016, seguita da diverse conformi [27] – a “sciogliere la riserva” sul tema della ammissibilità della supersocietà di fatto tra società di capitali e/o persone fisiche alla luce delle riforme al diritto societario e fallimentare [28], superando l’impasse rappresentata dall’art. 2361, 2° comma, c.c. attraverso il richiamo alla rappresentanza generale di cui all’art. 2384 c.c. La Cassazione, in particolare – sulla scorta del fatto che a colui che entra in contatto con l’ente societario va riconosciuta la prerogativa di confidare nella spendita del nome dello stesso da parte di coloro che ne hanno la rappresentanza – stante l’inopponibilità di eventuali limitazioni (quantunque pubblicate) prevista dall’art. 2384 c.c., sempre fermo il limite dell’exceptio doli – si è espressa in senso [continua ..]
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6. Evidenti “leggerezze” nella soluzione della Suprema Corte La soluzione proposta dalla Suprema Corte che – senza alcuno sforzo dissimulatorio – mostra gli effetti dell’eco di una certa impostazione dottrinale, sembra quasi consacrare una sorta di “società del fatto compiuto” a discapito dei “paletti preventivi” posti dall’art. 2361, 2° comma, c.c. [34] che non può andare esente da critiche. Pur sempre nell’economia del presente commento, va rilevata – in via preliminare – una palese imprecisione (o rectius, forzatura) in cui pare essere incappata la Corte capitolina. Ebbene, quando si parla di “certezza dei traffici” e si evoca la ratio dell’art. 2384 c.c., il riferimento resta esclusivamente agli atti negoziali compiuti in nome e per conto della società (e ciò spiega la riserva dell’exceptio doli). Quindi, se non si può non accogliere l’affermazione (peraltro, alquanto ovvia) secondo cui “il [continua ..]
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7. L’ostacolo rappresentato dall’art. 2361, 2° comma, c.c. È possibile rintracciare un ulteriore “salto” operato dalla Suprema Corte nel congiungere due norme tra loro slegate: il riferimento è al collegamento tra l’art. 2361, 2° comma, c.c. e l’art. 2384 c.c. Posto che le competenze assembleari trovano la loro genesi direttamente nella legge – talché rimane preclusa la possibilità (anche post-Riforma) di attribuire statutariamente all’assemblea competenze segnatamente gestorie – l’art. 2361, 2° comma, c.c. si atteggia a vera e propria norma eccezionale nel momento in cui sottrae dall’alveo della “libera gestione” da parte dell’organo amministrativo un’operazione (quella dell’assunzione di “partecipazioni a responsabilità illimitata” [42]) idonea ad introdurre un rischio “atipico” (in quanto eccedente quello considerato dai soci in sede di costituzione e/o di adesione). A ben [continua ..]
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8. Patologia genetica della (super)società di fatto, applicazione quoad effectum dell’art. 2332 c.c. e principio di effettività La Suprema Corte supera, attraverso il richiamo all’art. 2332 c.c. (ritenuto applicabile anche alle società di persone e, pertanto, anche a quelle de facto), altresì, l’opinione secondo cui la violazione delle prescrizioni di cui all’art. 2361, 2° comma, c.c. comporterebbe l’invalidità o l’inefficacia dell’assunzione della partecipazione: il fenomeno, quantunque viziato ab ovo, non sarebbe comunque irrilevante per l’ordinamento, atteso che non potrebbe determinare la caducazione retroattiva dell’esistenza dell’ente così formato. La declaratoria di nullità dell’atto genetico di una società di persone sarebbe equiparabile quoad effectum allo scioglimento della stessa, sicché – stante il fondante principio di effettività – la patologia originaria, ancorché insanabile, si convertirebbe in causa di scioglimento. Quindi, il vizio generato dal mancato [continua ..]
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9. L’“addenda” del diritto vivente alle capacità espansive dell’art. 147 L. Fall.: la Consulta avalla la “soluzione efficientista” della Cassazione Tornando al dictum delle pronunzie della Suprema Corte e volendo tirare le somme, quest’ultima – dopo aver dato risposta positiva all’interrogativo circa la fallibilità di una società di capitali, “[anche] a responsabilità limitata, che si accerti essere socia di una società di fatto insolvente, allorché la partecipazione sia stata assunta in mancanza della previa deliberazione assembleare e della successiva indicazione nella nota integrativa al bilancio, richieste dall’art. 2361, secondo comma, cod. civ.” (sent. 21 gennaio 2016, n. 1095, cit.) – espressamente esclude che possa “ammettersi che la società di capitali, la quale abbia svolto attività di impresa operando in società di fatto con altri, possa in seguito sottrarsi alle eventuali conseguenze negative derivanti dal suo agire (ivi compreso il fallimento per ripercussione nel caso in cui sia accertata l’insolvenza della [continua ..]
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10. “Dalla compattezza inespugnabile della fortezza medievale alla fragilità del castello di sabbia”: i riflessi sul “dogma” della personalità giuridica Attraverso il placet all’applicazione estensiva dell’art. 147, 5° comma, L. Fall. oltre i margini letterali mantenuti dalla Riforma, la Suprema Corte (seguita, a stretto giro, dalla Consulta) con una vera e propria “rivoluzione copernicana” nel sistema del diritto delle società, realizza “l’orrore del legislatore verso la rottura del tabù dell’autonomia patrimoniale perfetta”, generando quella confusione patrimoniale che, in passato, la stessa Corte Costituzionale aveva voluto evitare, in nome di una “soluzione efficientista” che finisce per rompere una muraglia – almeno finora – impenetrabile [67]. Insomma, la Suprema Corte sembra quasi seguire le orme dell’omologa d’Oltremanica, proponendo una sorta di versione a marchio “Made in Italy” del piercing the corporate veil. Le risoluzioni della Cassazione tradiscono un certo orientamento verso una teoria [continua ..]
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11. Supersocietà di fatto e holding di fatto: profili differenziali. Il banco di prova rappresentato dall’affectio societatis e dal comune intento perseguito La sentenza della Corte d’Appello di Salerno richiamata in epigrafe ha disatteso la precedente ricostruzione operata dal Tribunale, ritenendo ricorrente nella fattispecie scrutinata – piuttosto che una “supersocietà di fatto” tra le S.r.l. coinvolte – una “holding di fatto” nel cui schema l’una società veniva strumentalizzata e piegata all’interesse imprenditoriale dell’altra, con conseguente inapplicabilità del fallimento in estensione e, di converso, percorribilità (eventuale) dell’iter risarcitorio previsto per le ipotesi di abuso di direzione e coordinamento dall’art. 2497 c.c. Il precipitato dell’intero impianto argomentativo della Corte salernitana può individuarsi nella (carenza di) prova dell’affectio societatis tra le due S.r.l., profilo che, invero, si rinviene con notevole frequenza nelle pronunce in tema, tanto da potersi ritenere ormai pacificamente [continua ..]
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12. Gli orientamenti delle Corti di merito sull’individuazione del comune intento perseguito Il riferimento all’affectio societatis, al di là della carica evocativa e l’indubbia rilevanza ai fini della configurabilità della società di fatto, avrebbe richiesto da parte della Suprema Corte uno sforzo maggiore in termini di perimetrazione concettuale, risultando più logico il richiamo ad un’“unica attività di impresa”, svolta in comune dai “soci” della società collettiva – sia pure variamente strutturata secondo una operatività che può comportare l’esercizio per conto proprio (e tal volta anche in nome proprio) di fasi dell’attività – senza, con ciò, smarrire la necessaria individuazione dell’attività oggettivamente svolta in comune, intesa come fenomeno oggettivo di produzione di ricchezza sul mercato (profilo, viepiù rilevante nel caso di partecipazione di una società di capitali ad una società di fatto, [continua ..]
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13. La prova della società di fatto in presenza di legami familiari tra i soci: affectio “societatis” o affectio “familiaris”? Nonostante parte della dottrina abbia fermamente criticato l’“inutile enfasi” posta sull’affectio societatis, negando a questa lo statuto di “requisito identificativo distintivo” – in quanto “aspetto della causa del contratto” [89] (piuttosto che del sodalizio in sé considerato) ed “elemento infimo ed evanescente” [90] – e “la formula dell’affectio societatis sembri rimandare in modo piuttosto esplicito ad un livello d’indagine che attiene alla dimensione psicologica del fenomeno”, essa, per contro, affermerebbe un ben preciso bisogno (di carattere pratico e non meramente teorico), ovverosia, “il bisogno di valutare il significato sociale di determinate condotte al fine di stabilire (con obiettiva certezza) se esse si inseriscono nel contesto di un’attività comune o sono da ricondurre a rapporti di diversa natura” [91], quali, ad esempio, [continua ..]
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14. Possibili epifenomeni dell’abuso della personalità giuridica: la responsabilità da direzione e coordinamento come “nuova frontiera dell’attività recuperatoria” Nei casi portati all’attenzione delle massime Corti italiane, si è di fronte a società utilizzate da imprenditori – sia individualmente che de facto in società con altri soggetti – come mero “strumento abusivo” (come direbbe Bigiavi, “adoperate come cosa propria” [98]) e, non di certo, sulla base di un contratto sociale, né condividendo alcuna affectio. Nella pratica, infatti, la situazione-tipo più ricorrente è quella in cui una o più persone si servono (di una o più) società di capitali per frammentare e segregare attività e patrimoni, “subornando” le stesse ad una strategia complessiva che può avere connotazioni patologiche. Anche se la Legge prevede e regola ex professo esclusivamente la fattispecie di eterodirezione “anomala” (di cui all’art. 2497 c.c.), i possibili “epifenomeni” dell’abuso dello schema [continua ..]
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15. (Segue): perplessità in ordine alle possibili confusioni sul piano rimediale La soluzione proposta dalla Corte salernitana nel provvedimento che qui si annota offre ancora un ulteriore spunto di riflessione: la riconduzione della fattispecie esaminata sotto l’egida della holding di fatto (piuttosto che nell’alveo della supersocietà di fatto), stante il deficit probatorio circa la sussistenza tra le società coinvolte di affectio societatis, non può non richiamare l’attenzione sulla possibile ipotesi di ricorrenza congiunta delle due fattispecie, specie con riferimento ai conseguenti esiti in sede fallimentare. L’ipotesi configurabile è quella della dichiarazione di fallimento “in estensione” della supersocietà di fatto (occulta) – ai sensi dell’art. 147, 5° comma, L. Fall. – costituita tra il soggetto controllante (società o persona fisica) e la società di capitali controllata, la cui esistenza venga disvelata solo dopo la dichiarazione di insolvenza di [continua ..]
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16. Rilievi critici conclusivi: l’art. 256 del Codice della Crisi e dell’Insolvenza come “ultimo tassello” nel percorso creativo della supersocietà di fatto La triade di sentenze con le quali la Suprema Corte – nel giro di soli sei mesi – ha “sconvolto il mondo”, offre l’occasione per una critica conclusiva (ma non per questo meno importante), questa volta, al modus interpretandi seguito, specie in ragione del fatto che quelle interpretazioni – frutto di un uso non parsimonioso di figure retoriche (dalle quali ben dovrebbe guardarsi l’interprete) [126] – hanno successivamente finito per innervare e suggestionare la disposizione di cui all’art. 256, 5° comma del Codice della Crisi e dell’Insolvenza, nella cui Relazione illustrativa si legge – infatti – che questa “trova il suo fondamento nella più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. n. 1095/ 2016) e della Corte Costituzionale (C. Cost. n. 255 del 2017) e consiste nella espressa previsione che, in caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale nei confronti di una [continua ..]
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