L’autore affronta il delicato e controverso tema della c.d. cameralizzazione del processo civile, indagando sulla natura, contenziosa o volontaria, di taluni specifici provvedimenti emessi nella procedura fallimentare e traendone le conseguenze in tema di ricorribilità per cassazione ex art. 111 Cost. o revocabilità. In particolare l’autore distingue, in particolare, il decreto che rigetta la conversione in fallimento di una procedura di amministrazione straordinaria ex lege Prodi da quello che riforma il provvedimento già emesso di conversione in fallimento.
align="center"> <The author addresses the delicate and controversial theme of the so called cameralization of the civil trial, investigating the nature, contentious or voluntary, of certain specific provisions issued in the bankruptcy procedure and drawing the consequences on the issue of recourse in Cassation ex art. 111 Cost. or revocability. The author distinguishes, in particular, the decree that rejects the conversion into bankruptcy of an extraordinary administration procedure pursuant to the Prodi Law from the one that reforms the provision already issued of conversion into bankruptcy.
1. L’incertezza delle forme, tra camerali e contenziose, nei procedimenti aventi ad oggetto l’accertamento di diritti (ancora sulla cameralizzazione del processo civile) - 2. I fatti di causa: la disciplina di ammissione al concordato o di conversione in fallimento, ai sensi del D.L. 13 maggio 2011, n. 70 - 3. La sottile linea rossa di demarcazione tra procedimenti contenziosi e di giurisdizione volontaria, con forme camerali - 4. Dall’astratto al concreto: il carattere non definitivo del decreto reiettivo della conversione in fallimento, ai sensi del combinato disposto dell’art. 8, 3° comma, D.L. 13 maggio 2011, n. 70 e degli artt. 69 ss., D.Lgs. 9 agosto 1999, n. 270 (e il carattere definitivo del decreto di revoca del fallimento già dichiarato) - NOTE
In un articolo di qualche anno fa era stato evidenziato, nella tecnica legislativa invalsa negli scorsi decenni, un uso promiscuo di forme contenziose e camerali [1]. Da un’altra parte del mondo scientifico, se non anche del tempo, gli studi di Foucault [2] avevano ispirato l’elaborazione di quella che sarebbe stata la c.d. queer theory, secondo cui sarebbe insita nell’essere umano una incertezza di genere maschio-femmina, laddove l’elaborazione degli aggettivi connessi maschile e femminile, con tutte le implicazioni sociali e antropologiche connesse, si sarebbe mostrata più che altro come il frutto di una elaborazione culturale, stratificatasi nel tempo [3]. Fuori dalla provocazione, tornano al nostro piccolo mondo del diritto e a tempi e luoghi più prossimi ai nostri, la sopra cennata promiscuità di forme camerali e contenziose riguardava anche la scelta dei rimedi “impugnatori”; laddove il reclamo, nato come mezzo di controllo nei procedimenti di volontaria giurisdizione (oltre che delle ordinanze rese dall’istruttore nel processo di cognizione), aveva finito col configurarsi, a volte, come un mezzo di impugnazione pienamente devolutivo, essendo applicato a fattispecie più propriamente contenziose. La problematica, ovviamente, non riguarda il solo aspetto – dopotutto consequenziale – dell’utilizzo del reclamo; quanto piuttosto l’intero utilizzo delle forme camerali per disciplinare procedimenti dal contenuto più propriamente decisorio. Si tratta della c.d. cameralizzazione dei giudizi civili, fenomeno ampiamente studiato dalla dottrina e dalla giurisprudenza che si sono, al contempo interrogate, circa l’effettiva applicabilità delle regole previste dagli artt. 737 ss. c.p.c., tutte quelle volte in cui il modello camerale sia stato adottato per giudizi dalla natura strettamente contenziosa [4]. Che gli studi di Foucault e il conseguente movimento femminista di critica di genere possano avere influenzato, a livello profondamente inconsapevole, il legislatore italiano del secondo dopoguerra è, naturalmente, una provocazione la cui verifica su basi scientifiche presupporrebbe – tra l’altro – un’indagine sulla profondità culturale della classe politica italiana, che esula dalle competenze di chi [continua ..]
La vicenda processuale risulta piuttosto complessa, sicché è bene metterne a fuoco i punti salienti. La Società C. s.p.a. veniva sottoposta ad amministrazione straordinaria ai sensi della previgente disciplina di cui alla Legge del 1979. A seguito dell’entrata in vigore della citata L. n. 270/1999, la procedura in questione continuava a rimanere regolata dalle previgenti disposizioni, giusta la norma transitoria di cui all’art. 106. Con successive LL. n. 273/2002 (in part. art. 7) e 296/2006 (in part. art. 1, 498° comma) veniva quindi disposta l’apertura di tutte le vecchie procedure, iniziate sotto il regime della L. n. 95/1979. Con il D.L. 13 maggio 2011, n. 70, convertito dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, venivano infine emanate talune disposizioni dirette ad ottenere la chiusura delle procedure di amministrazione straordinaria iniziate sotto la c.d. Legge Prodi, e non ancora definite. Veniva, in particolar modo, previsto (art. 8, 3° comma) che in tutte le procedure per le quali non fossero state avviate le operazioni di chiusura, i commissari liquidatori provvedessero “a pubblicare un invito per la ricerca di terzi assuntori di concordati da proporre ai creditori, a norma dell’art. 214 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e secondo gli indirizzi impartiti dal Ministero dello sviluppo economico, e secondo gli indirizzi impartiti dal Ministero dello sviluppo economico, dando preferenza alle proposte riguardanti tutte le società del gruppo poste in amministrazione straordinaria; b) in caso di mancata individuazione dell’assuntore, entro sei mesi dalla conclusione dei procedimenti di cui alla lettera a), il commissario liquidatore avvia la procedura di cui agli articoli da 69 a 77 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270”. In pratica, il meccanismo legislativo prevedeva la chiusura coatta delle procedure in corso, attraverso la proposta e la successiva omologazione di concordati; prevedendosi, in caso di esito negativo, l’avvio della procedura di conversione dell’amministrazione straordinaria in fallimento, ai sensi degli artt. 69 ss. D.Lgs. 9 agosto 1999, n. 270 [8]. Per quel che in questa sede rileva, l’art. 71 del citato D.Lgs. n. 270/1999 prevede che la conversione della procedura in fallimento, in analogia a quanto previsto dall’art. 214 L. Fall. in materia di liquidazione coatta [continua ..]
Il dibattito sulla natura della giurisdizione volontaria e sul rapporto di questa con la forma dei procedimenti in camera di consiglio è molto antico [12] e travalica i limiti di questo scritto. In linea di principio, come da autorevole e consolidato insegnamento, caratteristica intrinseca e al contempo distintiva del procedimento camerale e del provvedimento – almeno quando riveste la forma del decreto – è la sua inidoneità al giudicato materiale: “In via di sintesi, si può quindi riaffermare che il decreto camerale accentra in sé una somma di peculiarità che valgono a distinguerlo dalla sentenza e che si compenetrano nella seguente formula: non fa giudicato. Il che vuol dire, più distesamente, che il provvedimento non spiega efficacia incontrovertibile né è dotato di una qualsivoglia stabilità; e i due caratteri negativi si riflettono in modo positivo determinando la soggezione del decreto alla possibilità di modifica o di revoca ed altresì la sindacabilità dei suoi vizi in ogni giudizio ove venga richiamato” [13]. La portata di siffatta affermazione, però, viene comunemente circoscritta da due ordini di limitazioni. Il primo è di carattere eminentemente formale: l’art. 742 c.p.c. menziona la revoca [14] con riguardo ai soli decreti. Dal momento, però, che i provvedimenti in camera di consiglio possono anche rivestire la forma della sentenza o dell’ordinanza, ci si domanda se la disciplina della revoca possa trovare applicazione anche a tali fattispecie. A tal riguardo, sia pure con qualche incertezza, viene generalmente riconosciuta la revocabilità dei provvedimenti emessi con la forma dell’ordinanza, salvo – ovviamente – il caso di espresse disposizioni contrarie [15]. A conclusioni opposte, di contro, si giunge quando il provvedimento ha forma di sentenza: la forma della decisione, invero, determinerebbe l’applicabilità del regime proprio di ogni sentenza, inclusi l’idoneità al giudicato (formale e anche materiale), il principio della irrevocabilità da parte del suo autore e le regole proprie dei rimedi impugnatori [16]. Si noti come pure i sostenitori della tesi del giudicato materiale delle sentenze di giurisdizione volontaria ammettano comunque, con argomentazioni diverse, un certo regime di [continua ..]
Nel solco dell’interpretazione tracciata, la Corte etnea individua, appunto, il discrimine tra revocabilità e ricorribilità per cassazione nella (nel caso di specie, ritenuta dalla Corte) “natura contenziosa poiché incidente su contrapposte posizioni di diritto soggettivo, ciò che attribuisce loro carattere decisorio e conseguentemente attitudine ad acquisire autorità di cosa giudicata” [29]. Nel caso di specie, il “diritto soggettivo” sarebbe quello “della società proponente il concordato e della società in amministrazione straordinaria a risolvere la dichiarata crisi dell’impresa mediante una liquidazione concorsuale alternativa al fallimento”; in altre parole: il diritto ad essere ammessa alla procedura di concordato ovvero a permanere nella procedura di amministrazione straordinaria ex Legge Prodi. Il ragionamento seguito dalla Corte si rivela, al riguardo, particolarmente interessante, e tuttavia non condivisibile nella sua premessa concettuale e nelle conclusioni applicative. Si ripercorrano, al riguardo, i fatti processuali. Un’impresa propone una domanda di ammissione al concordato. Questa viene dichiarata inammissibile e viene contestualmente dichiarato il fallimento. A seguito di reclamo, la Corte d’Appello conferma l’inammissibilità del concordato, ma al contempo revoca la dichiarazione di fallimento, sul presupposto (corretto o meno che sia) del mancato decorso di un termine dilatorio. A questo punto, una delle parti decide di attendere il decorso del presunto termine dilatorio e propone, al decorso termine, istanza di revoca/modifica del provvedimento della Corte d’Appello. Il punto di vista della parte – che decide di proporre istanza di revoca o modifica ex art. 742 c.p.c. – è che con l’istanza di revoca non viene messo in discussione il diritto dell’impresa all’ammissione al concordato [30]. La declaratoria di inammissibilità, anzi, viene data ormai per assodata; semplicemente viene dedotto il fatto sopravvenuto del decorso del tempo, sicché la dichiarazione di fallimento sarebbe la conseguenza meccanicamente necessaria, ai sensi dell’art. 8, 3° comma, lett. b), D.L. 13 maggio 2011, n. 70 [31]. Il ragionamento della Corte, di contro, è incentrato sulla natura contenziosa [continua ..]