Il Diritto Fallimentare e delle Società CommercialiISSN 0391-5239 / EISSN 2704-8055
G. Giappichelli Editore

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La nuova “composizione negoziata” alla luce della direttiva “insolvency”. Linee evolutive (extracodicistiche) dell'ordinamento concorsuale italiano (di Vittorio Minervini, Docente a contratto nell’Università degli Studi Tor Vergata di Roma)


L’articolo si propone di analizzare la nuova “composizione negoziata” introdotta dal D.L. n. 118/2021. Nonostante la “forma tecnica” dell’intervento d’urgenza, il Decreto Pagni sembra poggiare solidamente su una riflessione dottrinaria, non solo europea, avviata ben prima della pandemia e che a livello unionale è culminata nell’approvazione della Direttiva “Insolvency”. Capitalizzando concetti che erano stati già al centro del dibattito scientifico e ponendosi già nella prospettiva del recepimento della Direttiva, la composizione negoziata sembra segnare non già un sem­plice “cambio di passo” nella gestione dell’emergenza pandemica, iniziando piuttosto a gettare le fondamenta di quello che appare un più profondo e duraturo “cambio di cultura” nella visione delle discipline concorsuali. In quest’ottica, l’articolo svolge alcune rapide considerazioni in merito alle linee evolutive del diritto della crisi d’impresa che sembrano scorgersi, in nuce, nei tratti salienti del nuovo istituto, soffermandosi in particolare sulla preferenza verso soluzioni di tipo negoziale ad istanza di parte e sull’emersione “precocissima” della crisi; sul concetto di insolvenza diffusa e su quello connesso – invero sempre più centrale – di “risanabilità”, anche in base ai princìpi euro-uni­tari sul diritto della concorrenza e sugli aiuti di Stato; sulla progressiva “oggettivizzazione” del diritto della crisi d’impresa; sulla crescente considerazione dei c.d. interessi “altri”; sul primato della business rescue culture; sul rilievo dei paradigmi di buona fede, correttezza e solidarietà.

 

The new “negotiated settlement” in light of the “insolvency” directive: (extra ordinem) evolutionary lines of the italian bankruptcy system

The article intends to analyse the new "negotiated settlement" introduced by D.L. n. 118/2021. In spite of its “technical form” (being an emergency decree), the Pagni Decree seems to be firmly based on findings that (not just in Europe) had begun establishing themselves well before the pandemic and which, at a euro-unitary level, had culminated in the adoption of the Insolvency Directive. Capitalizing on concepts that had already been at the centre of the scientific debate, and already placing itself in the perspective of the transposition of the Directive, the "negotiated settlement" seems destined not only to mark a "change of pace" in the pandemic emergency management, but also to start laying the foundations for what seems to be a deeper and more lasting "change of culture" vis-à-vis the insolvency proceedings. In this sense, the article sketches some quick considerations on the evolutive lines of bankruptcy law that seem to emerge from the main features of the new “negotiated settlement”, focusing in particular on the preference for negotiated solutions at the request of the party and on the "earliest" warning; on the concept of “widespread insolvency” and on that, strictly related (and indeed increasingly central) of “recoverability”, also in the light of the Euro-unitary principles on competition law and State aids; on the advancing objectification of business crisis law; on the increasing attention towards the so called "other" interests; on the primacy of the business rescue culture; on the importance of the paradigms of good faith, fairness and solidarity.

Keywords: negotiated settlement, systemic crisis, insolvency proceedings, widespread insolvency, recovery and reorganization, business rescue culture.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Il “cambio di passo” segnato dal Decreto - 3. I “cambi di cultura”. Insolvenza diffusa, preferenza per le soluzioni di tipo negoziale ad istanza di parte ed “earliest warning” - 4. Il fulcro logico del nuovo istituto: il concetto di “risanabilità” - 5. Implicazioni ricostruttive “di sistema”: l’oggettivizzazione del diritto della crisi d’impresa e gli interessi “altri” - 6. Il primato della “business rescue culture” - 7. La prospettiva (anche) macro-economica (e la necessaria coerenza con i princìpi euro-unitari del diritto della concorrenza e degli aiuti di Stato) - 8. Buona fede, correttezza e solidarietà - 9. Conclusioni - NOTE


1. Premessa

Le Misure urgenti in materia di crisi d’impresa e di risanamento aziendale recate dal D.L. n. 118/2021 (c.d. “Decreto Pagni”), convertito con modificazioni dalla L. n. 147/2021, hanno già suscitato una nutrita attenzione da parte della dottrina. I primi commentatori si sono spesi in analisi di vario taglio ed esito [1], che hanno scan­dagliato in particolare due topoi ricorrenti, vale a dire: da un lato, il nuovo rinvio dell’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa; dall’altro, il diverso e ulteriore differimento delle misure di allerta, nonché il peculiare rapporto fra queste e la nuova “composizione negoziata per la soluzione della crisi di impresa”, istituita dal Decreto (cfr. artt. 2 ss.). Pur facendo tesoro delle indicazioni sin qui emerse, in luogo di un (ulteriore) commento “a caldo” che si addentri nella disamina delle singole disposizioni, il presente contributo intende trasferire l’analisi su un piano differente, cercando cioè di inquadrare l’intervento normativo in una prospettiva d’insieme, su un piano diacronico e, direi, culturale. A tale riguardo, mutuando (e per certi versi rielaborando) la saggia osservazione di chi pensa – a ragione, a mio avviso – che dietro ogni riforma dell’ordinamento delle crisi d’impresa dovrebbe esservi “un cambiamento di passo al quale spesso dovrebbe corrispondere un cambio di cultura nell’approccio al tema e nella gestione delle soluzioni” [2], mi pare di poter dire che il D.L. n. 118/2021 segni effettivamente, in primo luogo, un importante “cambio di passo”. Il Decreto è infatti espressione di un legislatore che non deve (più) preoccuparsi (soltanto) di dare ossigeno alle imprese ma che, in concomitanza con i prodromi della tanto attesa ripresa economica [3], può (anzi, ritiene di dover) dedicarsi a una più lungimirante attività di ricostruzione normativa, che favorisca il rilancio del sistema produttivo del Paese. Proprio in questo senso, e nonostante la forma tecnica dell’intervento d’urgenza, il Decreto sembra inaugurare un nuovo cantiere di riforme, destinato per molti aspetti a radicare anche un rilevante “cambio di cultura” nel diritto della crisi d’im­presa, non solo nella sua dimensione emergenziale [4]. La composizione negoziata sembra infatti [continua ..]


2. Il “cambio di passo” segnato dal Decreto

Non si può inquadrare fino in fondo il “cambio di cultura” di cui vorrei qui ragionare senza aver meglio definito in cosa consista il “cambio di passo” da cui esso promana. Sarebbe forse più corretto, in questo senso, parlare di “passi”, al plurale. In primo luogo, sembra davvero tangibile la cesura che distacca l’approccio (inevitabilmente “inseguro y urgido”) dei primi provvedimenti emergenziali da quello (più meditato e consapevole) del Decreto, che dichiara apertamente l’intento di farsi artefice della “seconda fase della reazione […] all’emergenza provocata dalla pandemia” [7]. A separare concettualmente l’una impostazione dall’altra v’è la lucida “presa di coscienza”, esposta nelle pagine iniziali della Relazione Illustrativa, a mo’ di manifesto programmatico. Essa evidenzia infatti come i “sostegni di tipo finanziario ed economico riconosciuti alle imprese” (che, insieme al “congelamento” forzoso delle procedure concorsuali, avevano rappresentato la cifra qualificante degli interventi dei primi mesi di pandemia) abbiano avuto l’indubbio merito di aver “ridotto il peso della crisi sulle attività produttive”; e tuttavia essa rimarca altresì che, nel lungo periodo, questi “non potranno […] contenere e risolvere i profondi mutamenti del tessuto socio-economico provocati dalle restrizioni collegate alla pandemia” [8]. Al contempo, quale premessa e giustificazione all’intervento, la Relazione riconosce expressis verbis [9] che la legge fallimentare, il Codice e, in generale, lo strumentario normativo/concettuale pre-pandemico non sono adatti a garantire la gestione dell’e­mergenza in atto [10]; che in questo percorso di necessaria riforma degli strumenti per affrontare la crisi d’impresa “occorre dare completa attuazione […] alla Direttiva del Parlamento e del Consiglio, 20 giugno 2019, n. 2019/1023 UE riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva […]”; e che, a tale scopo, sarà necessario anche apportare le opportune “integrazioni” alle disposizioni del Codice della crisi [11], ovviamente tenendo conto “dell’emergenza sanitaria” [12]. Pur nella sua veste formale di decreto legge, l’intervento normativo [continua ..]


3. I “cambi di cultura”. Insolvenza diffusa, preferenza per le soluzioni di tipo negoziale ad istanza di parte ed “earliest warning”

Occorre avvertire, in limine, che proprio la funzione di “ponte” assunta dal Decreto potrebbe rendere non agevole, almeno in alcuni casi, distinguere i tratti solo “transeunti”, destinati a esaurirsi con il superamento della pandemia, da quelli invece “durevoli”, che qui maggiormente interessano perché incarnano il fenotipo di quello che potrà essere il “nuovo” diritto della crisi e dell’insolvenza riformato alla luce della Direttiva. Un primo concetto di base su cui testare una tale opera di setaccio è quello della c.d. “insolvenza diffusa”, con ciò intendendosi quella condizione di illiquidità dilagante e trasversale provocata da uno shock esogeno, che investe simultaneamente più mercati. Dopo essere stata al centro del dibattito dottrinario [20] e delle misure assistenziali nelle prime settimane successive al dilagare del contagio (sotto il profilo del trattamento che richiede anche a fini concorsuali), tale “condizione” rappresenta, ancora oggi, uno dei pilastri concettuali del Decreto [21]. Si tratta di un tema che, in sé considerato, potrebbe apparire “tipicamente pandemico” (e dunque, almeno auspicabilmente, “transitorio”); ma la progressiva globalizzazione dell’economia, che amplifica e accelera il diffondersi delle crisi c.d. sistemiche [22], dovrebbe indurre a non escludere troppo frettolosamente la possibilità che, nel prossimo futuro, un simile fenomeno non possa, magari per cause diverse, tornare in auge. La storia delle varie “bolle” (finanziarie e immobiliari) del recente passato insegna che da una crisi di liquidità generalizzata in uno o più comparti produttivi possono scaturire ricadute a monte e a valle della filiera che, specie in taluni casi o settori, possono estendersi ad altri comparti e mercati, finanche a livello globale [23] (e d’altra parte, un simile spettro sta tornando ad aleggiare sui mercati, con la crisi del colosso immobiliare cinese Evergrande). Anche volendo mettere da parte queste considerazioni (inquietanti, ma non peregrine), quel che appare rilevante ai nostri fini è che l’azione di contrasto a una tale condizione di “insolvenza diffusa” (ma, almeno in molti casi, “reversibile”) viene esercitata ora dal Decreto, ampliando e affinando ulteriormente [continua ..]


4. Il fulcro logico del nuovo istituto: il concetto di “risanabilità”

Ma il vero fulcro logico della nuova composizione negoziata sembra essere quello della “risanabilità” [33]. La risanabilità costituisce, infatti, il primo e indefettibile requisito che deve ricorrere per poter accedere alla composizione (dovendo essere “[…] ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa”: art. 2); su di essa sono stati costruiti tanto l’onere probatorio gravante sull’impresa (cfr. art. 3, 2° comma, e art. 7, 2° comma, lett. e); su entrambi si tornerà meglio infra), quanto il mandato conferito all’esperto, che fin dalla prima audizione è tenuto a “valutare l’esistenza di una concreta prospettiva di risanamento”; soprattutto, da essa dipende l’esito stesso della “procedura” [34], posto che l’istanza deve essere archiviata de plano laddove un tale risultato non sia ragionevolmente ottenibile (v. art. 5, 5° comma). Ho già avuto modo di soffermarmi, nel recente passato, sul concetto di “risanabilità” e sui suoi sfuggenti connotati giuridici [35]. Volendo semplificare, per quanto qui di interesse, un discorso in realtà assai più complesso, si può dire che a partire dalla sua emersione nella disciplina dell’amministrazione straordinaria (art. 27 D.Lgs. n. 270/1999) e passando per il suo successivo inserimento all’in­terno della legge fallimentare comune (con l’introduzione dei piani attestati di risanamento ex art. 67, 3° comma, lett. d), L. Fall., ora art. 56 del Codice), tale paradigma si è progressivamente consolidato nel diritto della crisi, anche nella disciplina speciale riservata agli intermediari bancari e finanziari [36]. Questo trend si è rafforzato ancor di più negli ultimi anni, in particolare nella cornice giuridica della Direttiva Insolvency, il cui obiettivo notoriamente è quello di “garant[ire] alle imprese e agli imprenditori sani che sono in difficoltà finanziarie la possibilità di accedere a quadri nazionali efficaci in materia di ristrutturazione preventiva che consentano loro di continuare a operare” (cfr. considerando 1). Anche nel Codice il giudizio sulla risanabilità dell’impresa in crisi assume del resto un ruolo centrale nell’ambito del procedimento giurisdizionale unitario, ai fini dell’applicazione [continua ..]


5. Implicazioni ricostruttive “di sistema”: l’oggettivizzazione del diritto della crisi d’impresa e gli interessi “altri”

Il ruolo di “perno logico” assunto dal concetto di risanabilità (dell’impresa in senso oggettivo, intesa cioè come organizzazione produttiva) conferma un ulteriore elemento chiave, nitidamente desumibile dall’evoluzione delle discipline della crisi: la progressiva oggettivizzazione di queste ultime, a superamento del tradizionale “rap­porto duale «creditore-debitore»” [51], di natura soggettiva ed esecutiva. Coerentemente con la Direttiva [52], la composizione sottende infatti un’imposta­zione di stampo prettamente oggettivo, che considera l’impresa come valore giuridico a sé stante, collocato al centro del sistema, intorno al quale gravita la pluralità di interessi eterogenei portati anche dagli altri stakeholders. È sull’impresa in senso obiettivo, intesa dunque come organizzazione [53] (e non sul soggetto-imprenditore) che va espresso il giudizio di risanabilità (e vanno dunque ponderate e valutate le possibilità di successo dell’azione di salvataggio, volta a sottrarre l’impresa obiettivamente considerata alla possibile disgregazione a causa della pandemia) [54]. Si potrebbe anzi dire, in questo senso, che l’intera composizione è un “percorso” (secondo la diplomatica qualifica data dalla Relazione) ontologicamente preordinato a commisurare, attraverso il (para)metro della risanabilità, le esigenze di protezione del valore-impresa con tutti gli “altri” interessi coinvolti e, pure, potenzialmente meritevoli di tutela, ivi compresi, naturalmente, quelli dei creditori, ai quali è rimessa, in ogni caso, l’ultima parola [55]. Questo nuovo corso, per così dire “oggettivato”, del diritto della crisi d’impresa ha probabilmente alle sue basi anche precisi fattori di carattere storico ed economico: soprattutto in quella che si definisce come new economy, il vero valore di un’im­presa non sta, infatti, tanto nei beni materiali di cui l’azienda si compone, quanto in altri elementi, per lo più intangibili (quali ad es. il know-how, l’avviamento, la forza del brand, la reputation sociale e commerciale) [56], che in caso di sua dissoluzione si perderebbero pressoché totalmente, in danno degli stessi creditori (donde, dunque, anche il loro interesse a preservare tali valori, mantenendo [continua ..]


6. Il primato della “business rescue culture”

Le riflessioni appena svolte aprono il ragionamento su un altro caposaldo concettuale della Composizione, quello della c.d. “business rescue culture”. Si tratta, notoriamente, di una filosofia ormai comune a molteplici ordinamenti continentali ed extraeuropei, in un percorso ben osservabile a livello globale [64] che, attraverso linee di ragionamento fondate in particolare sul modello concettuale del Chapter 11 statunitense, viene oggi positivamente accolta nelle fonti euro-unitarie che regolano la materia (a partire dalla Direttiva: cfr., ad es., i primi quattro considerando). Tale filosofia risulta comunque ben identificabile, sia pur come minore nettezza, anche nelle disorganiche leggi di riforma che a partire dal 2005 hanno caratterizzato il diritto fallimentare nazionale [65] e (in modo però non sempre esente da incertezze e contraddizioni) nell’impostazione seguita dal nuovo Codice della crisi [66] e, sul piano anche sostanziale, (last but not least) nel nuovo art. 2086, 2° comma, c.c. [67]. Se la Direttiva privilegia certamente la salvaguardia dell’impresa in crisi, imponendo agli Stati membri di perseguire il tentativo di risanamento ricercando l’“e­quilibrio” fra i diritti di tutte le parti coinvolte [68], la nuova composizione negoziata appare ancor più chiaramente preordinata a dare priorità al salvataggio dell’impresa (nel senso sopra precisato), tutelando in via diretta la continuità aziendale; e in questo supera piuttosto nettamente l’assetto di interessi che era stato tracciato, sul punto, dal Codice [69]. Infatti – com’è stato già validamente osservato – mentre il Codice ha sposato in sostanza un’impostazione qualificabile come creditor-oriented, nel Decreto la filosofia della business rescue (e della salvaguardia della continuità aziendale che ne è corollario) è stata indubbiamente privilegiata, imprimendo alla Composizione, con la complicità della contingenza pandemica, un orientamento più nettamente debtor-oriented [70]. La diversità di approccio rispetto al Codice risulta del resto assai nitida, ove si consideri che l’art. 4, 5° comma, del Decreto attribuisce all’imprenditore il dovere di “gestire il patrimonio e l’impresa senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori”, mentre il [continua ..]


7. La prospettiva (anche) macro-economica (e la necessaria coerenza con i princìpi euro-unitari del diritto della concorrenza e degli aiuti di Stato)

Personalmente non ho nulla da obiettare sul fatto che, per un periodo transitorio ed entro limiti ben definiti, stabiliti da un giudice, per salvaguardare l’integrità del­l’organizzazione aziendale (e del valore, anche immateriale, in essa incorporato) gli interessi dei creditori possano essere collocati, specialmente in un contesto come quello attuale, su un piano anche parzialmente recessivo rispetto a quello dell’im­presa e della sua continuità; ciò a patto di stare però attenti a non incorrere in indebite e semplicistiche generalizzazioni e semplificazioni. E qui sta un’ulteriore riflessione, che si riaggancia anche alle due precedenti. L’ac­centuarsi dei profili della conservazione dell’impresa in crisi porta infatti a rendere più evidente la tensione con i princìpi del diritto della concorrenza, che costituiscono un patrimonio acquisito e indiscusso anche a livello unionale [74], acuendo la problematicità intrinseca di tale relazione che, a mio avviso, può essere stemperata e risolta soltanto intervenendo “a monte”, vale a dire garantendo l’accesso a queste forme di protezione soltanto a chi davvero le “meriti”, secondo i dettàmi della competition on the merits. In altri termini, soltanto alle imprese che siano davvero risanabili [75]. Tale ultima considerazione (oltre a dare ulteriore riprova, se mai ve ne fosse bisogno, del ruolo cruciale rivestito da tale paradigma normativo), consente un breve (ma oggi quanto mai doveroso) excursus su come il diritto della crisi e dell’in­sol­venza, se correttamente interpretato e applicato alla luce delle regole concorrenziali, possa contribuire a incentivare la crescita e la ripresa economica. Che (anche) le regole concorsuali possano svolgere un ruolo importante in questo senso non dovrebbe essere ormai dubitabile. È infatti largamente condiviso, a li­vello internazionale (ed euro-unitario), che una moderna legislazione sull’insolven­za possa contribuire significativamente alla crescita e allo sviluppo economico di un Paese e dei suoi mercati, favorendo la selezione delle imprese migliori (attraverso la fuoriuscita dal mercato di quelle incapaci di competere) e assicurando l’allocazione ottimale delle risorse produttive che, celermente smobilizzate, possono essere reimpiegate in modo più proficuo in nuove e [continua ..]


8. Buona fede, correttezza e solidarietà

Prima di concludere, vorrei riprendere il discorso che avevo iniziato a svolgere con riferimento alla possibile rinegoziazione dei contratti ex art. 10 Decreto, essendo questo un tema che merita di essere analizzato anche sotto altra angolatura. Che tale attività di riconduzione ad equità delle prestazioni contrattuali in funzione della salvaguardia della continuità aziendale debba svolgersi sotto l’egida del principio di “buona fede” costituisce, a mio avviso, la prova del fatto che il Decreto rappresenti anche un’occasione, particolarmente importante in questi delicati frangenti storici, per il riconoscimento della solidarietà sociale quale valore costituzionale imprescindibile [83] e la riaffermazione della rilevanza di tale canone, a livello non solo interpretativo, ma anche applicativo (artt. 1175, 1366, 1375, c.c.). A tale riguardo, sarebbe forse riduttivo limitarsi a ricordare come sia il Decreto che il Codice facciano un analogo riferimento alla buona fede e alla “correttezza” come asse portante dei “doveri delle parti”, su entrambi i fronti (cfr. art. 4, 4° comma, Decreto e art. 4, 1° comma, del Codice [84]). Mi sembra però che la previsione dell’art. 10 del Decreto contribuisca anche a chiarire la vis expansiva dei precetti generali enucleati in chiave statica e astratta dall’art. 4 (del Codice e del Decreto), attribuendo loro concretezza, dinamismo e vitalità. In questo senso va ricordato che l’attitudine della “buona fede” quale strumento per riequilibrare il sinallagma contrattuale non è certo una novità introdotta dall’art. 10 del Decreto [85]. Al contrario, una siffatta previsione sembra piuttosto rappresentare la conferma, a livello normativo, di un ragionamento interpretativo già svolto a più riprese dalla giurisprudenza. Più in particolare, essa sembra riecheggiare il pregevole sforzo ricostruttivo svolto (poco dopo il dilagare del contagio) dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione, che ha poi trovato ampia eco applicativa anche nella giurisprudenza di merito. E infatti, muovendo proprio dal paradigma della business rescue e della continuità dell’impresa, in una prima relazione la Corte notava che “nel contesto dei contratti commerciali, che sono ancillari all’esercizio dell’impresa e ne [continua ..]


9. Conclusioni

Non è possibile, né forse opportuno, dilungarsi oltre in questa sede. Confido co­munque che le considerazioni che precedono possano essere utili a dimostrare come il Decreto, pur gemmando dal diritto “dell’emergenza”, rappresenti in realtà il primo caposaldo della tanto attesa opera di ripartenza e ricostruzione economica e sociale, che è necessariamente anche di carattere normativo. A mio sommesso avviso non si può ridurre la Composizione a uno strumento meramente transitorio, al pari dei tanti altri istituti ideati dal legislatore emergenziale in questi mesi convulsi, al solo fine di ridare ossigeno al tessuto economico nazionale e, come tali, effimeri e destinati ad essere presto dimenticati. Pur adottato nella cornice pandemica, questo primo frutto del lavoro della Com­missione Pagni sembra infatti collocarsi su un piano ben diverso, che sta ad anticipare le linee evolutive dell’impianto concettuale cui anche il Codice della crisi dovrà necessariamente conformarsi, in ossequio ai princìpi e alle previsioni della Direttiva. Si può allora fondatamente pensare che il Decreto rappresenti una sorta di prova generale del “cambio di cultura”, che si consoliderà quando i princìpi, le logiche e gli obiettivi della Direttiva, che vediamo oggi applicati alla Composizione, saranno traslati più compiutamente anche nel Codice.


NOTE