Il Diritto Fallimentare e delle Società CommercialiISSN 0391-5239 / EISSN 2704-8055
G. Giappichelli Editore

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Classi di creditori, moratoria dei privilegiati e contenuti del piano nel nuovo concordato preventivo (di Stefano Ambrosini, Professore ordinario di Diritto commerciale nell'Università del Piemonte Orientale)


Il saggio affronta vari aspetti del concordato preventivo quale riformato dal Codice della crisi d'impresa e dell’insolvenza, con specifico riferimento alla classificazione dei creditori, alla moratoria dei privilegiati, al piano di concordato e ai suoi contenuti.

Classifications of creditors, moratorium of secured creditors and reorganization plan contents in the new arrangement with creditors

The paper examines several aspects of the arrangement with creditors according to the Italian Crisis and Insolvency Code, focusing in particolar on classifications of creditors, moratorium of secured creditors, reorganization plan and its contents.

SOMMARIO:

1. L’introduzione nell’ordinamento concorsuale della suddivisione dei creditori in classi e l’approdo del codice della crisi - 2. La generale facoltà di prevedere la suddivisione in classi - 3. Le ipotesi di classi obbligatorie e gli interessi protetti - 4. La suddivisione in classi nel concordato in continuità - 5. (Segue): i creditori privilegiati interessati dalla ristrutturazione - 6. Le altre ipotesi di classi separate - 7. Le classi nel concordato liquidatorio - 8. Lo scrutinio in ordine alla correttezza della classificazione e i relativi criteri - 9. Il divieto di alterare l’ordine delle cause di prelazione - 10. La “moratoria per il pagamento” dei creditori privilegiati - 11. (Segue): la questione del diritto di voto - 12. I contenuti del piano concordatario e dell’attestazione: dalla sintesi all’analisi - 13. La centralità della programmazione e del “fattore tempo” - 14. Il “nucleo” del piano - 15. Gli altri requisiti contenutistici del piano - 16. I contenuti “speciali” del piano in continuità - 17. La preferibilità della soluzione concordataria - 18. L’attestazione del piano - 19. Conclusioni - NOTE


1. L’introduzione nell’ordinamento concorsuale della suddivisione dei creditori in classi e l’approdo del codice della crisi

La “patria”, per così dire, delle classi di creditori è notoriamente considerata la legislazione statunitense. Il Chapter XI del Bankruptcy Code, infatti, ha introdotto la classificazione del ceto creditorio [1] avendo presente soprattutto il rischio di condotte opportunistiche da parte di quei creditori per i quali vi è sostanziale indifferenza tra ristrutturazione e liquidazione e che proprio per questo possono essere tentati di opporre alla soluzione risanatrice una resistenza “strategica” [2], diretta a massimizzare benefici “privati” a danno degli altri creditori e comunque a carico del debitore. L’esportazione in Italia e in altri Paesi europei di tale “modello” si è caratterizzata, tuttavia, per significative differenze a livello sia di disciplina positiva che di funzione dell’istituto. L’introduzione, nel nostro ordinamento concorsuale, della suddivisione dei creditori in classi, anche se talora viene fatta risalire alla riforma del 2005, è in realtà avvenuta con l’art. 4-bis della L. n. 39/2004 (c.d. Legge Marzano), che ha poi “contaminato” gli altri concordati oggetto di successive riforme [3]. Disposizione, questa, che ha in allora costituito il paradigma normativo dei concordati quali di lì a breve novellati dalla legge fallimentare e, ad un tempo, l’approdo di riflessioni elaborate in sede di proposte di riforma della stessa [4]: all’esito delle quali, quanto al tema della par condicio [5], il trattamento paritario dei creditori è stato previsto, nell’am­ministrazione straordinaria come nel concordato preventivo, solo nei limiti dell’o­mogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici [6]. A distanza di vent’anni, nel nuovo codice della crisi [7] è stata inserita una norma – quella dell’art. 85 – dedicata espressamente alla suddivisione dei creditori in classi, a riprova della rilevanza che detta fattispecie ha progressivamente assunto a livello legislativo, oltre che dal punto di vista pratico (atteso che già in passato la maggior parte delle domande di concordato prevedevano la classificazione [8] del ceto creditorio). E le relative disposizioni contengono oggi una disciplina opportunamente più analitica e articolata, diretta a inserire alcune importanti [continua ..]


2. La generale facoltà di prevedere la suddivisione in classi

Il 1° comma dell’art. 85, nello stabilire che il piano può prevedere la suddivisione dei creditori in classi con trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse, sancisce definitivamente la facoltatività, in linea di principio, della classificazione del ceto creditorio. La riaffermazione di tale regola (pur con le cospicue eccezioni che vedremo subito in appresso) consente di ritenere superata la tesi, in passato abbastanza diffusa [13], secondo la quale vi era l’obbligo di far luogo alla divisione in classi tutte le volte in cui venivano riscontrate posizioni non omogenee fra i creditori e ciò al fine di scongiurare un’applicazione indiscriminata della regola di maggioranza e di estendere la facoltà di opposizione da parte dei creditori dissenzienti. Già in passato, peraltro, la dottrina prevalente si era attestata su posizioni più restrittive [14]. Del resto, il disposto dei successivi 2° e 3° comma e la latitudine delle ipotesi di classificazione obbligatoria in essi contenute depongono nel senso che, al di là dei casi – per l’appunto numerosi e significativi – di classi obbligatorie, deve valere in linea generale il principio di facoltatività: il che non toglie che oggi l’obbligatorietà delle classi sia divenuta, come si vedrà, l’ipotesi prevalente. La disposizione in esame, contemplando il collegamento necessario fra divisione in classi e diverso trattamento dei creditori, risulta coerente con quanto stabilito dalla Direttiva Insolvency, risolvendo nel contempo un dubbio posto dalla vecchia disciplina. Il persistente utilizzo dell’espressione “trattamenti differenziati” senza ulteriori specificazioni lascia invece aperta la questione delle classi che contemplano il medesimo trattamento a beneficio dei rispettivi creditori. La norma sembrerebbe consentire che, nell’eventualità di soddisfacimento in denaro, vi siano più classi i cui creditori siano destinati a ricevere la medesima percentuale di pagamento, mentre va esclusa l’ipotesi che tutte le classi prevedano la stessa percentuale, giacché in tal caso verrebbe meno la, invece indefettibile, differenza di trattamento con riguardo ad almeno una classe; mentre non pare – ripetiamo – che la legge richieda che per ciascuna classe vi sia una differente percentuale, a meno di [continua ..]


3. Le ipotesi di classi obbligatorie e gli interessi protetti

L’enucleazione dei casi di obbligatoria suddivisione in classi valida per tutte le tipologie di concordato costituisce l’approdo di un annoso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che ha avuto luogo nella vigenza di una disciplina – come si diceva – assai scarna. E in proposito si è osservato trattarsi di “scelta condivisibile, dettata dalla necessità di tenere separate e distinte le posizioni di creditori portatori di interessi del tutto disomogenei (…). Di qui anche la funzione informativa delle classi” [15]. La legge attuale richiede la creazione di una classe ad hoc, anzitutto, per i creditori titolari di crediti tributari o previdenziali dei quali non sia previsto l’integrale pagamento. L’interesse protetto è qui dato dalla particolare tutela dei creditori pubblici qualificati di cui trattasi, considerati meritevoli in quanto tali dei vantaggi scaturenti dalla loro necessaria classificazione. Data la rilevanza anche pubblicistica di tali pretese, per i crediti tributari e previdenziali è sancita – com’è noto – l’apposita disciplina dell’art. 88. La seconda ipotesi prevista si riferisce ai creditori che siano ad un tempo titolari di garanzie prestate da terzi. Il legislatore ritiene con ciò che coloro che possono fare affidamento sui cc.dd. collaterals siano orientati a esprimersi sulla proposta di concordato da una posizione potenzialmente “condizionata” da altri interessi e valutazioni: in effetti, il creditore la cui pretesa sia garantita aliunde è oggettivamente meno interessato all’esito del concordato, sebbene ciò dipenda in concreto dalla natura dalla garanzia e dalla capienza del suo oggetto [16]. La stessa considerazione vale, a fortiori, per quei creditori che formulino una proposta concordataria concorrente e per le parti ad esse correlate. A ben vedere, anzi, la soluzione più rigorosa (già peraltro scartata dal legislatore del 2015) avrebbe potuto prevedere tout court la sterilizzazione del loro diritto di voto [17]. L’ultimo caso è quello dei creditori di cui la proposta contempli il soddisfacimento con utilità anche solo parzialmente diverse dal denaro. In questa ipotesi l’obbligo di classificazione è collegato alla modalità di soddisfazione diversa dal pagamento, per sua natura meno certa [continua ..]


4. La suddivisione in classi nel concordato in continuità

Il 3° comma dell’art. 85, dedicato al concordato in continuità, contiene la regola in virtù della quale in questa tipologia concordataria – che in base al disposto dell’art. 84 ricomprende, opportunamente, le ipotesi di continuità indiretta (come del resto prescritto dalla legge delega [18]) e risulta di conseguenza assai ampia – la suddivisione dei creditori in classi è in ogni caso obbligatoria. Il precetto discende da quanto stabilito dalla Direttiva Insolvency, il cui art. 11, par. 1, lett. b), recepito dall’art. 112, 2° comma, del codice, sancisce l’omologabilità del piano di ristrutturazione non approvato da tutte le parti interessate in ognuna delle classi di voto. L’innovazione è di notevole momento: da un lato, la qualifica di concordato in continuità reca con sé automaticamente la necessità di classificare il ceto creditorio; dall’altro, come si dirà più ampiamente in appresso, vanno suddivisi in classi tutti i creditori, chirografari o privilegiati, aventi diritto al voto, laddove in passato non erano configurabili classi di prelatizi se non nel caso contemplato dall’art. 160, 2° comma, L. Fall., limitatamente alla parte residua di credito. Non v’è dubbio tuttavia che l’opzione adottata dal legislatore, al cospetto della progressiva proliferazione dei privilegi nel nostro ordinamento, comporti che l’attività di classificazione in parola finisca per risultare, all’atto pratico, “estremamente complessa e finanche numericamente parcellizzata” [19]. L’ultima parte del comma in questione si riferisce ai piccoli fornitori dell’im­presa poi caduta in crisi, e ciò in ossequio al disposto dell’art. 9, par. 4, della Direttiva Insolvency, che postula l’adozione di misure idonee, attraverso la suddivisione in classi, alla tutela di soggetti, quali appunto le imprese minori fornitrici, giustamente ritenute più vulnerabili. Della tutela di prestatori di beni e servizi il legislatore si occupa anche altrove: basti pensare all’esenzione da revocatoria fallimentare – ma non anche da quella ordinaria – dei pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa, purché “nei termini d’uso”: art. 166, 3° comma, lett. a). A [continua ..]


5. (Segue): i creditori privilegiati interessati dalla ristrutturazione

La seconda parte dell’art. 85, 3° comma, statuisce, poi, che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca devono essere suddivisi in classi quando risultano “interessati dalla ristrutturazione”, chiarendo al contempo che ciò avviene quando non ricorrono le condizioni fissate dall’art. 109, 5° comma. Con il richiamo a quest’ultima disposizione, relativa alle ipotesi in cui i creditori privilegiati non votano, si ribadisce anzitutto la correlazione fra sacrificio “imposto” al creditore ed esercizio del voto, essendo quest’ultimo precluso ogniqualvolta vi sia invece neutralità della proposta concordataria per determinati creditori. Questa neutralità, ai sensi della norma per ultima citata, si verifica quando i creditori prelatizi vengono soddisfatti in denaro, integralmente, entro centottanta giorni dall’o­mologazione e purché la garanzia reale che assiste il credito ipotecario o pignoratizio resti ferma fino alla liquidazione, funzionale al loro pagamento, dei beni e diritti sui quali sussiste la causa di prelazione. Il legislatore, pertanto, enuclea a contrario le situazioni nelle quali, a fronte di una soddisfazione incompleta (pagamento non integrale, non in denaro od oltre il suddetto termine), scatta il diritto di voto [20]. Nel caso in cui il creditore privilegiato venga soddisfatto tempestivamente ma solo in parte, la porzione di credito falcidiata, che scade a rango chirografario, va inserita in una classe ad hoc ed egli vota limitatamente a questa parte [21], non essendo il creditore interessato dalla ristrutturazione per la porzione capiente del credito. Si è dubitato, in dottrina, se debba formarsi, con riguardo al medesimo creditore, una seconda classe avente ad oggetto la quota privilegiata soddisfatta [22] e se il creditore voti anche per la parte di credito non falcidiata, non risultando chiaro in proposito l’art. 109, 4° comma, che sancisce l’equiparazione ai chirografari limitatamente alla parte residua del credito. Il discorso si collega alla norma sul contenuto del piano concordatario, dato che esso, ai sensi dell’art. 87, lett. n), deve indicare, individualmente o per categorie di debiti, le eventuali parti non interessate dal piano e i relativi motivi (e in argomento si veda infra): a conferma della centralità del concetto in parola, derivato dal già citato art. 11 della [continua ..]


6. Le altre ipotesi di classi separate

Un caso ulteriore di classe separata obbligatoria è quello contemplato dall’art. 120-ter, 2° comma, riferito all’ipotesi di società in concordato il cui statuto riconosca a determinati soci diritti diversi dagli altri: qui la classificazione (la rubrica della norma utilizza antiesteticamente, come si è già ricordato, il neologismo “classamento”) è necessaria tutte le volte in cui il piano preveda modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci e, in ogni caso, per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Con riguardo poi ai crediti oggetto di contestazione da parte del debitore in concordato, la legge non ne fa menzione all’art. 85, bensì al successivo art. 87, la cui lett. l), trattando delle parti interessate dal piano, indicate individualmente o descritte per categorie di debiti, e dell’ammontare dei relativi crediti e interessi, prescrive l’indicazione “dell’ammontare eventualmente contestato”. Non pare peraltro debba formarsi una classe necessariamente separata, nella misura in cui per assolvere all’esigenza di informazione del ceto creditorio sembra sufficiente l’inserimento dei crediti giudizialmente contestati in una delle classi omogenee contemplate dalla proposta (in alternativa alla creazione di una classe ad hoc); laddove la loro omissione tout court (seppur motivata da una valutazione di rischio di soccombenza remoto) altererebbe – come posto in evidenza dalla Cassazione – le previsioni di soddisfacimento degli altri creditori certi, non consentendo loro di esprimere valutazioni prognostiche corrette e di atteggiarsi in modo pienamente informato circa il proprio voto [23]. La nuova disciplina del concordato non considera l’ipotesi dei creditori postergati, su cui pure vi è stato, nel passato anche recente, ampio dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza. Tale mancata previsione sembra spiegabile con “l’implicita volontà del legislatore di non considerarli quali creditori concorrenti che possano essere ammessi al voto, se non quando la proposta concordataria ne preveda il soddisfacimento sul patrimonio residuo una volta soddisfatti integralmente i creditori chirografari” [24]. Ciò del resto coincide con l’approdo cui era giunta la Cassazione configurando la posizione dei creditori [continua ..]


7. Le classi nel concordato liquidatorio

Come si diceva, la previsione relativa alle classi obbligatorie di cui all’art. 85, 2° comma vale per tutte le tipologie di piani concordatari. Al contrario, il disposto del 3° comma è limitato al concordato in continuità, donde l’inapplicabilità al piano liquidatorio della disposizione relativa ai privilegiati interessati dalla ristrutturazione. Ne deriva che nel nuovo sistema continua a valere la regola ricavabile in precedenza dal tenore del vecchio art. 160, 2° comma, consistente nella classificazione dei privilegiati falcidiati per incapienza dei beni oggetto della garanzia, limitatamente alla parte residua del credito scaduta a chirografo. Ciò trova puntuale conferma tanto nell’art. 84, 5° comma, sul soddisfacimento non integrale dei privilegiati e sul conseguente degrado a chirografo, quanto nell’art. 109, 4° comma, ai sensi del quale i creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede la soddisfazione non integrale sono equiparati ai chirografari per la parte residua del credito. Nel caso di classificazione nel concordato liquidatorio si pone poi – o meglio si ripresenta – il tema della percentuale del 20%, da riferirsi a ogni singola classe, ovvero al monte complessivo dei chirografari. All’indomani della novella del 2015 che ha introdotto tale soglia, chi scrive si è domandato “se lo sbarramento sia destinato a valere per ciascuna classe (di tal che non potrebbero darsi classi di chirografari con soddisfacimento inferiore al 20%), oppure se detta soglia possa configurarsi come “criterio mediano”, nel qual caso basterebbe che ai creditori chirografari fosse assicurato in media il 20% (donde l’ammissibilità, ad esempio, di una domanda con previsione di tre classi, rispettivamente al 15, 18 e 27 per cento). Com’è chiaro, in assenza di sicuri appigli interpretativi la presentazione di una domanda come quella da ultimo prefigurata appare oggettivamente problematica, anche se l’approccio ermeneutico più prudente e rigoroso introduce un elemento di disparità di trattamento fra concordato liquidatorio e concordato in continuità (…). E lo stesso deve probabilmente affermarsi, nel concordato senza classi, con riferimento a una percentuale «a forbice» compresa, ad esempio, fra il 16 e il 24 per cento (a meno, anche qui, di voler assumere [continua ..]


8. Lo scrutinio in ordine alla correttezza della classificazione e i relativi criteri

A differenza del regime previgente, che onerava espressamente il tribunale, in sede di ammissione al concordato, del compito di valutare la correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi (art. 163, 1° comma, L. Fall.), l’odierno art. 47 non contiene un analogo, specifico, precetto: esso si limita a richiedere che il tribunale verifichi l’ammissibilità della proposta in caso di concordato liquidatorio e la ritualità della stessa nel caso di quello in continuità. Pur non nascondendosi la preferenza per la vecchia formulazione (perspicua proprio perché esplicita) in quella sedes materiae, si ritiene che lo scrutinio in questione possa ricondursi senza soverchie difficoltà ai concetti di controllo in ordine all’ammissibilità e alla ritualità delle proposte concordatarie. Del resto, di verifica della “corretta formazione delle classi” parla ex professo l’art. 112, 1° comma, lett. d), sicché ciò che è previsto, a valle, in sede di omologazione deve considerarsi implicitamente (e a fortiori) contemplato, a monte, in sede di ammissione alla procedura. Depone in tal senso anche il tenore dell’art. 90, 7° comma, in tema di proposte concorrenti [30], là dove prescrive la verifica, da parte del tribunale, circa la “correttezza dei criteri di formazione delle classi”: in effetti, non è dato scorgere il motivo in base al quale analoga valutazione non debba essere richiesta (anzitutto) relativamente alla proposta presentata dallo stesso debitore [31]. Da quanto osservato pare lecito ipotizzare che si sia trattato di una mera dimenticanza del legislatore all’atto di redigere il testo dell’art. 47, che non risulta coordinato, da questo punto di vista, con le disposizioni testé menzionate. Va infine segnalato che la legge previgente non postulava espressamente l’e­splicitazione delle ragioni sottese alla classificazione operata nella proposta, anche se la prassi registrava, in base all’id quod plerumque accidit, una frequente tendenza dei debitori a illustrare tali ragioni nella domanda di concordato. Si affermava pertanto che la verifica in ordine alla ragionevolezza del trattamento diseguale era rimessa esclusivamente ai creditori [32]. Nell’odierna disciplina si prevede, all’art. 87, 1° comma, lett. m), la necessaria “indicazione dei [continua ..]


9. Il divieto di alterare l’ordine delle cause di prelazione

Com’è noto, il previgente art. 160 disponeva, all’ultima parte del 2° comma, che il trattamento stabilito per ciascuna classe non poteva avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione. Il precetto è riaffermato oggi dal 4° comma dell’art. 85, di tal che continua a essere preclusa la possibilità di trattamento deteriore di un creditore privilegiato rispetto a uno chirografario (o di loro inserimento nella medesima classe), nonché, come già si diceva, quella di soddisfare in pur minima parte un creditore subordinato in assenza del previo soddisfacimento integrale di privilegiati e chirografari. Va tuttavia registrata un’importante distinzione rispetto al passato per quanto concerne il concordato in continuità. Ed infatti, nel fare espressamente salvo quanto disposto, in particolare, dal 6° comma dell’art. 84, la suddetta previsione prende atto dell’avvenuto recepimento della relative priotity rule con riguardo al c.d. plusvalore da continuità aziendale. In questa tipologia concordataria, cioè, il valore eccedente quello di liquidazione non dev’essere distribuito nel rigido rispetto della graduazione dei privilegi, essendo sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore: con l’ec­cezione dei crediti da lavoro ai sensi dell’art. 84, 7° comma, parimenti richiamato dalla disposizione in commento, per i quali opera sempre la c.d. absolute priority rule. Il 4° comma dell’art. 85 fa riferimento anche al 5° comma dell’art. 84, sebbene esso non attenga alle regole di distribuzione dell’attivo concordatario; com’è stato osservato, nondimeno, il legislatore ha in tal modo “inteso fare salva anche l’am­missibilità del soddisfacimento non integrale dei creditori prelatizi, ivi prevista, ritenendo che anch’essa sia derogatoria delle regole generali sulla responsabilità patrimoniale” [33].


10. La “moratoria per il pagamento” dei creditori privilegiati

Nel sistema previgente la dilazione dei creditori privilegiati era disciplinata dall’art. 186-bis, 2° comma, lett. c), L. Fall., ai sensi del quale il piano in continuità aziendale poteva prevedere una moratoria fino a due anni (prima della modifica apportata dal D.L. n. 118/2021 la norma parlava in realtà di un anno), salvo che fosse prevista la liquidazione dei beni o dei diritti sui quali sussisteva la causa di prelazione. La norma precisava che i privilegiati così “coattivamente” riscadenziati erano privi del diritto di voto. Il corollario di queste previsioni, secondo la lettura prevalente in giurisprudenza, consisteva nella necessità per il debitore, ove volesse dilazionare i privilegiati oltre tale termine, di ottenere il consenso di tutte le “parti interessate” attraverso la stipulazione dei cc.dd. accordi o patti paraconcordatari [34]. Non erano peraltro mancati, in dottrina, tentativi di estendere in via interpretativa l’arco temporale della moratoria, prevedendo in tal caso l’attribuzione del voto [35]. Sulla stessa lunghezza d’onda della predetta impostazione dottrinale, la Legge delega n. 155/2017, all’art. 6, aveva previsto, limitatamente al concordato in continuità, una durata della moratoria anche superiore a un anno, con attribuzione, in tal caso, del diritto di voto. La ratio risiedeva nel non prestabilire un termine massimo della moratoria, compensando tale facoltà del debitore con il potere, da parte dei privilegiati dilazionati, di esprimersi a favore o contro la proposta concordataria. La suddetta elaborazione è poi sfociata nella pronuncia di legittimità secondo la quale “nel concordato preventivo con continuità aziendale è consentita la dilazione del pagamento dei crediti privilegiati anche oltre il termine di un anno dall’omo­logazione, purché si accordi ai titolari di tali crediti il diritto di voto e la corresponsione degli interessi” [36]. L’odierna disciplina risulta coerente con la ratio della legge delega, pur non considerando espressamente la questione del voto. L’art. 86 del codice infatti, dopo aver fatto salvo quanto previsto nell’art. 109, stabilisce che il piano può prevedere una moratoria per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, a meno che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui [continua ..]


11. (Segue): la questione del diritto di voto

L’art. 86 nulla dice, a differenza della disciplina anteriore e di precedenti versioni della norma [41], a proposito del voto. Occorre tuttavia considerare che l’art. 109, all’ultima parte del 5° comma, statuisce che, nel caso in cui non ricorrano le condizioni per considerare i creditori privilegiati parti non interessate dalla ristrutturazione, i creditori muniti di diritti di prelazione votano (e, per la parte incapiente, sono inseriti in una classe distinta). Ciò comporta che i creditori privilegiati soddisfatti oltre il termine di centottanta giorni ivi previsto (ridotto a trenta per i crediti di lavoro) votino e che – parrebbe – possano farlo per l’intero credito [42], non essendo fra l’altro stabiliti criteri che parametrino la misura del voto all’entità della perdita economica conseguente al ritardo nell’adempimento [43]. Va tuttavia soggiunto che la formulazione (per vero non felicissima) del precetto testé richiamato pare (non imporre ma) autorizzare anche una diversa soluzione, secondo la quale la porzione di credito incapiente, inserita nel­l’apposita classe, rappresenti la misura del voto, onde evitare che al creditore sia consentito esprimersi anche relativamente alla parte di credito non interessata dalla ristrutturazione. E proprio questo margine di dubbio conferma una certa ambiguità del dettato normativo.


12. I contenuti del piano concordatario e dell’attestazione: dalla sintesi all’analisi

Nel regime previgente le disposizioni riservate al piano di concordato erano notoriamente piuttosto succinte. L’art. 161, 1° comma, lett. e), si limitava a prescrivere, in via generale, che il debitore dovesse presentare, unitamente al ricorso, un piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta. Con specifico riguardo al piano in continuità, poi, l’art. 186-bis, dopo aver precisato che tale piano prevedeva la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione, nonché l’eventuale liquidazione di beni non funzionali all’esercizio del­l’im­presa, stabiliva che esso doveva contenere anche un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura. Il legislatore del nuovo codice ha invece dettato una norma alquanto articolata, nell’ottica di onerare fin da subito il debitore di una serie di doveri attraverso la fissazione di requisiti contenutistici che, come si vedrà in seguito, sono essenzialmente di tre tipi: descrittivo, esplicativo e propositivo [44].


13. La centralità della programmazione e del “fattore tempo”

Il filo conduttore delle disposizioni (quanto meno di quelle più rilevanti) che ci si appresta, pur sinteticamente, a esaminare è rappresentato dalla necessità di precisare, anzitutto nell’interesse dei creditori, in quali modi, tempi e misura ciascuno di essi sarà soddisfatto, all’insegna di un’esigenza di programmazione che – com’è stato osservato – “implica che la fluidità dei fenomeni economici sia strategicamente governata e che il debitore delinei a tal fine una cornice operativa e cronologia “analitica”, cui non è avulsa la prefigurazione di scenari alternativi” [45]. Con il che si registra una saldatura tra il dovere di trasparenza del debitore verso il tribunale e verso il ceto creditorio e il diritto di quest’ultimo a essere compiutamente informato, anche in merito agli effetti delle opzioni diverse dal concordato. Il fatto che il debitore sia chiamato a programmare le proprie attività in funzione del buon esito del piano – e quindi dell’adempimento della proposta – trova riscontro nell’iniziale previsione (e nel successivo rispetto) dei tempi previsti per il soddisfacimento dei creditori. Ed è ben noto che l’inosservanza di tali tempistiche può essere foriera di risoluzione del concordato [46], a conferma della centralità del “fattore tempo” [47], per quanto concerne sia il piano che la proposta formulata dal debitore (o da un terzo). Quanto all’assunto secondo il quale “i tempi di adempimento sono componente della proposta” e non del piano [48], in realtà è lo stesso art. 87, 1° comma, lett. e), a richiedere che il piano contenga la descrizione analitica delle modalità “e dei tempi di adempimento della proposta”. Si tratta piuttosto di un caso paradigmatico di requisito che costituisce contestualmente elemento sia della proposta che del piano, a conferma dell’intima connessione fra essi; ferma restando, beninteso, la distinzione concettuale fra proposta, intesa come ciò che viene offerto ai creditori “in cambio” della loro adesione, e piano, che rappresenta “lo strumento operativo e organizzativo per formulare la proposta e costituisce l’architettura organizzativa (una sorta di pianificazione economica, patrimoniale e finanziaria) per far sì [continua ..]


14. Il “nucleo” del piano

Gli elementi “nucleari” del piano comuni alle diverse tipologie di concordato sono costituiti, come pure in passato, da due requisiti di carattere “propositivo”: le modalità di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti (lett. d) e la già menzionata descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento (lett. e). Rispetto alla legge fallimentare, l’odierno codice ha aggiunto fra gli elementi-fulcro del piano, come si vedrà fra breve, il valore di liquidazione del patrimonio (lett. c) [50]. Il primo requisito di cui si diceva ricalca verbatim il disposto della lett. a) dell’art. 160, 1° comma, L. Fall. Se ne ricava, alla luce del persistente utilizzo del­l’espressione “attraverso qualsiasi forma”, la conferma di una fattispecie “aperta”, a contenuto non precostituito, mentre la locuzione “anche mediante” seguita dalle modalità di soddisfacimento dei creditori rende l’elenco di queste ultime chiaramente non tassativo, bensì puramente esemplificativo; anche se va detto che le ipotesi menzionate rispondono indubbiamente all’id quod plerumque accidit, specie ove nella “cessione dei beni” venga fatto rientrare, alla stregua di quanto previsto dall’art. 84, pure il trasferimento dell’azienda in esercizio. Quanto al requisito di cui alla lett. e), esso costituisce il cuore della proposta diretta ai creditori, atteso che ciascuno di essi dev’essere informato del modo in cui avverrà l’adempimento (con pagamento in denaro o con altre modalità satisfattive, come negli ultimi anni è di frequente accaduto attraverso l’attribuzione di strumenti finanziari partecipativi) e del momento in cui ogni creditore riceverà soddisfazione. Consapevole della frequenza, specie in tempi recenti, dei disallineamenti registrati in sede di esecuzione del concordato rispetto a quanto preventivato dal debitore, il legislatore, alla lett. i), ha richiesto l’indicazione ab origine delle iniziative da adottare in caso di scostamento dagli obiettivi pianificati. Di qui la conferma della legittimità, in passato per vero non pacifica, di piani cc.dd. alternativi, in cui si prefiguri la possibilità che il piano “principale” non vada a buon fine e si delineino uno o più piani “subordinati”. In proposito, [continua ..]


15. Gli altri requisiti contenutistici del piano

Riprendendo la distinzione tipologica dei requisiti ex art. 85 quale proposta in precedenza, possono annoverarsi fra quelli descrittivi, oltre all’indicazione (per vero probabilmente superflua) “del commissario giudiziale ove già nominato” (lett. p), l’indicazione del debitore e delle eventuali parti correlate, le sue attività e passività al momento della presentazione del piano e la descrizione della situazione economico-finanziaria dell’impresa e della posizione dei lavoratori (lett. a), nonché l’in­dicazione delle cause e dell’entità dello stato di crisi o di insolvenza in cui si trova e l’indica­zione delle strategie d’intervento (lett. b): previsione, quest’ultima, sicuramente opportuna, anche se frequentemente messa in pratica, per così dire, ante litteram già nel passato, nell’ottica di offrire al tribunale e ai creditori l’informazione più completa possibile. Rientra nel novero dei requisiti di carattere descrittivo anche il valore di liquidazione del patrimonio, di cui si è già detto in precedenza. Per quanto concerne i requisiti esplicativi, oltre alle lettere l), m) e n) sulle parti interessate e su quelle non interessate dal piano, nonché sulla classificazione delle prime [cfr. sub art. 85], ricadono in tale categoria i requisiti di cui alle lettere f) e i), di cui si tratta, rispettivamente, nel paragrafo che segue e in quello che precede. Alla lettera g), poi, sono contemplati gli apporti di nuova finanza, la cui necessità per l’attuazione del piano dev’essere opportunamente illustrata. La norma va riferita tipicamente ai casi di continuità aziendale, anche se non può escludersi il ricorso a risorse finanziarie aggiuntive nell’ipotesi di concordato liquidatorio: nel qual caso occorre naturalmente spiegare e attestare che esse sono funzionali alla miglior liquidazione (ad esempio, per completare la costruzione di un immobile al fine di venderlo a un prezzo sensibilmente maggiore). L’espressione “finanza nuova” usata dalla legge allude ai finanziamenti che il debitore si propone di ottenere dagli istituti di credito o da altri soggetti, inclusi i soci (e in proposito l’art. 102, relativo ai finanziamenti prededucibili dei soci, parla di loro erogazione “in qualsiasi forma, inclusa l’emissione di garanzie e [continua ..]


16. I contenuti “speciali” del piano in continuità

Se quelli fin qui esaminati possono definirsi requisiti contenutistici “generali”, vale a dire prescritti indistintamente per ogni tipologia di piano, ve ne sono altri di carattere “speciale”, in quanto riferiti al solo concordato con continuità aziendale. In primo luogo, la già più volte ricordata lett. e) richiede, con una previsione di non lieve momento, che il piano in continuità rechi con sé il piano industriale e che esso contenga l’indicazione degli effetti sul piano finanziario e dei tempi occorrenti per il riequilibrio della situazione finanziaria. In secondo luogo, per l’ipotesi di continuità diretta la lett. f) prescrive, con formulazione pressoché identica al vecchio art. 186-bis, L. Fall., l’analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi, nonché del fabbisogno finanziario e delle relative modalità di copertura. Nel raffronto tra tale previsione, limitata alla continuità diretta, e quella più ampia di cui alla lett. e) si è ravvisata, in dottrina, “una asimmetria tra il piano industriale in continuità diretta e quello proveniente o fatto proprio dal terzo che prosegue l’attività – non potendosi propriamente parlare di piano industriale del debitore che si limiti a trasferire a terzi la proprietà o la detenzione del­l’azienda –, che si traduce, nel secondo caso, in un deficit informativo” [57]. La norma in esame poi, puntando a essere “al passo coi tempi” anche sotto il profilo della doverosa adeguatezza ai precetti di matrice unionale, precisa che occorre tener conto anche dei costi necessari ad assicurare il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro e di tutela dell’ambiente: il che, nel caso ad esempio degli oneri di bonifica di siti inquinati, può in concreto comportare esborsi considerevoli, talora in grado di mettere a repentaglio la sostenibilità economica del piano [58]. Va infine osservato che vi è una serie di previsioni, già ricordate nel paragrafo precedente – da quelle sulle strategie di intervento e sugli apporti di nuova finanza (lett. b) e g)) a quelle sulla “posizione dei lavoratori” (espressione non immune da oggettiva genericità), sull’informazione e la consultazione tramite i loro rappresentanti e sugli effetti della [continua ..]


17. La preferibilità della soluzione concordataria

Con il 2° comma dell’art. 87 il legislatore ha onerato il debitore di indicare, esplicitandole, le ragioni per cui la proposta concordataria è preferibile alla liquidazione giudiziale. Il precetto rientra fra quelli che attengono alla comparazione fra due scenari: l’o­pzione concordataria e l’alternativa ad essa, rappresentata dalla liquidazione giudiziale. Senonché, come chi scrive ha osservato all’indomani del varo del codice, è lecito dubitare della reale necessità di richiedere la preferibilità del concordato quando il resto della disciplina è imperniato sul criterio di non deteriorità di trattamento [59], apparendo il riferimento in parola poco armonico rispetto al quadro generale. Una spiegazione, invero non priva di una qualche plausibilità, della ratio della norma è stata ravvisata nel disposto dell’art. 40: la dichiarazione che in tale sede “il debitore è tenuto ad effettuare attiene alla deduzione della causa petendi (ovvero le «ragioni della domanda» di cui al 2° comma dell’art. 40), che sorregge e spiega il proposito di accedere allo strumento di regolazione della crisi. La mancanza di tale requisito può, quindi, dare luogo all’inammissibilità del ricorso sotto il profilo processuale, non già all’inammissibilità della proposta di carattere negoziale, la quale, dato il principio di equivalenza di cui all’art. 841, non deve necessariamente risultare preferibile rispetto alla liquidazione giudiziale con riguardo alla misura del trattamento offerto” [60]. Resta nondimeno il dubbio circa il fatto che la disposizione di cui trattasi fosse, nella “economia” dell’art. 87 (che oltre tutto si occupa del piano e non della domanda), davvero indispensabile.


18. L’attestazione del piano

Il 3° comma dell’art. 87 è dedicato all’attestazione del professionista indipendente – secondo la definizione di cui all’art. 2, lett. o) – all’uopo incaricato dal debitore. Preliminarmente, si rende opportuna una precisazione dal punto di vista lessicale, giacché il termine “attestazione” che il legislatore, per vero comprensibilmente, continua a utilizzare (dopo averlo a suo tempo mutuato dalla scienza e dalla pratica aziendalistiche) è qui adoperato – come si legge in dottrina – in senso assolutamente generico rispetto al suo significato etimologico, in quanto l’attestazione di cui si tratta, in effetti, “non produce alcuna certezza e men che meno una certezza legale e, pur se può essere il frutto anche di accertamenti, è assolutamente irriducibile ad una «certificazione». L’attestazione esprime un giudizio, una valutazione (in chiave soprattutto prognostica), ed è pertanto riconducibile piuttosto ad un parere caratterizzato dalla particolare competenza del suo autore” [61]. Ciò detto sul piano terminologico e venendo al contenuto della norma, essa enuclea l’oggetto di tale attestazione, il quale viene declinato negli svariati profili che vanno scrutinati dall’attestatore con la debita diligenza, pena la propria responsabilità civile e penale [62]. I primi due aspetti riguardano tutte le tipologie di concordato e consistono nella veridicità dei dati aziendali e nella fattibilità del piano. Con esclusivo riferimento al concordato in continuità, poi, la norma sancisce che il relativo piano dev’essere atto a (i) impedire o superare l’insolvenza del debitore; (ii) garantire la sostenibilità economica dell’impresa; (iii) riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale. Il disposto dell’art. 87, 3° comma, riveste – com’è chiaro – un’importanza centrale, dal momento che in esso si rinviene la declinazione dei precetti-chiave in tema di continuità aziendale, che vanno oltre quello di fattibilità del piano (autonomamente prescritto dalla disposizione in esame, unitamente alla veridicità dei dati aziendali, senza distinzioni – si ripete – fra tipologie di concordati) e che [continua ..]


19. Conclusioni

Come si evince da quanto sin qui esposto, la nuova disciplina del concordato preventivo – frutto di progressive e non sempre lineari “stratificazioni” – affronta e risolve numerose questioni che nel sistema previgente avevano sollevato dubbi interpretativi, conformemente a quanto prescritto nella legge delega. In coerenza poi con la Direttiva Insolvency, sopravvenuta a quest’ultima, il codice detta altresì previsioni fortemente innovative rispetto al passato, a cominciare dall’obbligatoria classificazione dei creditori nel concordato in continuità. Le disposizioni passate in rassegna in questa sede, tanto più se “incrociate” con quelle relative al voto e all’omologazione, sono peraltro connotate da un livello di analiticità e complessità obiettivamente elevato, che non è del tutto chiaro quanto fosse davvero indispensabile. Il che rimanda all’efficace notazione da ultimo formulata in dottrina, che è una critica e al tempo stesso un auspicio: “La nuova disciplina è complessa, forse eccessivamente complessa. Verrà probabilmente un momento nel quale si sentirà l’esigenza di semplificazione” [68].


NOTE