Il Diritto Fallimentare e delle Società CommercialiISSN 0391-5239 / EISSN 2704-8055
G. Giappichelli Editore

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Supersocietà di fatto e holding di fatto tra affectio societatis, affectio familiaris ed eterodirezione abusiva (di Carlo Dubelli, Dottorando di ricerca, Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche nell’Università di Salerno)


Il presente commento propone una rassegna critica degli orientamenti giurisprudenziali (di legittimità e di merito) e dottrinali in ordine alla configurabilità della c.d. “supersocietà di fatto” ed alla relativa prova, giocata sul terreno dell’affectio societatis, dell’affectio familiaris e del comune intento perseguito.

Dopo aver evidenziato le criticità derivanti dall’interpretazione offerta dalla Suprema Corte sulle capacità estensive dell’art. 147, L. Fall. – soprattutto alla luce del nuovo art. 256, quinto comma, Codice della Crisi – l’analisi si propone di delineare i confini tra il fenomeno della “supersocietà di fatto” e la distinta ipotesi di abuso di direzione e coordinamento (“holding di fatto”), onde recuperare la necessaria distinzione, sul piano rimediale, tra le due figure.

 

“De facto super-companies” and “de facto holding companies” between affectio societatis, affectio familiaris and abusive hetero-direction

This commentary proposes a critical review of case law and doctrinal orientations regarding the configurability of the so-called “de facto super-company” and the related evidence, played out on the terrain of affectio societatis, affectio familiaris and common pursued intent.

After highlighting the critical issues arising from the interpretation offered by the Supreme Court on the extensive capabilities of Article 147 of the Bankruptcy Law – notably in light of the new art. 256, fifth paragraph, of the Code of Crisis – the analysis aims to delineate the boundaries between the phenomenon of the “de facto super-company” and the different hypothesis of abuse of direction and coordination (“de facto holding company”), in order to recover the necessary distinction, on the remedial level, between the two figures.

Keywords: Corporations – bankruptcy – de facto super companies – de facto holding companies – affectio societatis – abusive hetero-direction – insolvency.

MASSIMA(1) Si ha una supersocietà di fatto (occulta) tra due società di capitali quando ciascuna società, mettendo a disposizione il proprio patrimonio (in un fondo comune) e la propria collaborazione, esercita una comune attività nell’interesse di entrambe le società, partecipando ai profitti ed alle perdite. Il fatto che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo (anche solo di fatto) costituisce, piuttosto, prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto e, viceversa, prova a favore dell’esistenza di una holding di fatto, nei cui confronti il curatore potrà eventualmente agire in responsabilità e che potrà eventualmente essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l’insolvenza a richiesta di un creditore. MASSIMA(2) La prova della sussistenza della supersocietà di fatto va fornita in via rigorosa, in primo luogo attraverso la dimostrazione del comune intento perseguito, che deve essere conforme, e non contrario, all’interesse dei soci. Questa si caratterizza per il patrimonio e l’attività comune, l’effettiva partecipazione ai profitti ed alle perdite dei soggetti interessati e il vincolo di collaborazione tra i soci (con quote che si presumono uguali). È estranea a questa ipotesi quella della società che dirige e coordina, in funzione del proprio interesse o dell’interesse di terzi, l’attività di altra società. PROVVEDIMENTO: (Omissis). Con la sentenza in oggetto il Tribunale di Salerno ha accolto il ricorso del Fallimento (Omissis) s.r.l., ravvisando l’esistenza di una società di fatto tra la società fallita e la società (Omissis) s.r.l. sulla base di una serie di indici sintomatici del perseguimento di un comune intento sociale (coincidenza dell’attività esercitata e della sede sociale, trasferimento di lavoratori, identità dell’organo di gestione, commistione nei rapporti economici, comune contabilità), dichiarando, per l’effetto, il fallimento della “Supersocietà di fatto irregolare tra (Omissis) s.r.l. (già fallita) e (Omissis) s.rl. in liquidazione”, nonché della socia “(Omissis)s.r.l. in liquidazione”. Avverso la sentenza, la società (Omissis) s.r.l. propone reclamo, al quale resistono il Fallimento della “Supersocietà di fatto irregolare tra (Omissis) s.r.l. (già fallita) e (Omissis) s.r.l. in liquidazione”, nonché della socia “(Omissis)s.r.l. in liquidazione”, nonché Fallimento (Omissis) s.r.l. L’ESTENSIONE DEL FALLIMENTO DELLA SOCIETÀ DI CAPITALI Va anteposto agli altri, per priorità logica, il terzo ed ultimo motivo di reclamo, con cui si svolge una ragionata critica [continua..]
SOMMARIO:

1. Il caso - 2. Sull’estensione del fallimento della società di capitali - 3. La prova della “supersocietà di fatto” - 4. Estensione del fallimento: un escamotage “all’italiana” per legittimare il “piercing the corporate veil”? - 5. Il nodo gordiano dell’ammissibilità della “supersocietà di fatto”: la Cassazione scioglie la riserva - 6. Evidenti “leggerezze” nella soluzione della Suprema Corte - 7. L’ostacolo rappresentato dall’art. 2361, 2° comma, c.c. - 8. Patologia genetica della (super)società di fatto, applicazione quoad effectum dell’art. 2332 c.c. e principio di effettività - 9. L’“addenda” del diritto vivente alle capacità espansive dell’art. 147 L. Fall.: la Consulta avalla la “soluzione efficientista” della Cassazione - 10. “Dalla compattezza inespugnabile della fortezza medievale alla fragilità del castello di sabbia”: i riflessi sul “dogma” della personalità giuridica - 11. Supersocietà di fatto e holding di fatto: profili differenziali. Il banco di prova rappresentato dall’affectio societatis e dal comune intento perseguito - 12. Gli orientamenti delle Corti di merito sull’individuazione del comune intento perseguito - 13. La prova della società di fatto in presenza di legami familiari tra i soci: affectio “societatis” o affectio “familiaris”? - 14. Possibili epifenomeni dell’abuso della personalità giuridica: la responsabilità da direzione e coordinamento come “nuova frontiera dell’attività recuperatoria” - 15. (Segue): perplessità in ordine alle possibili confusioni sul piano rimediale - 16. Rilievi critici conclusivi: l’art. 256 del Codice della Crisi e dell’In­solvenza come “ultimo tassello” nel percorso creativo della supersocietà di fatto - NOTE


1. Il caso

La Corte d’Appello di Salerno, con la sentenza oggetto del presente breve commento, ha affrontato il tema della configurabilità (e, quindi, della fallibilità) della c.d. “supersocietà di fatto”, revocando il provvedimento con cui il Tribunale aveva dichiarato il fallimento della “Supersocietà di fatto irregolare” tra due società a responsabilità limitata (l’una già fallita, l’altra in liquidazione), nonché, il fallimento in estensione della seconda, ritenendo – alla luce degli elementi acquisiti – ricorrente nella fattispecie vagliata l’ipotesi di relazione verticale tra due società dirette e coordinate da un unico centro gestorio (c.d. “holding di fatto”), in cui l’una società rivestiva il ruolo strumentale di finanziatrice nell’esclusivo interesse dell’altra, fonte di responsabilità, al più, di tipo risarcitorio e non legittimante l’estensione del fallimento secondo il meccanismo previsto dall’art. 147, 5° comma, L. Fall. La circostanza che le due società coinvolte fossero controllate da una medesima persona fisica, in uno al finanziamento univoco dell’una verso l’altra (senza, peraltro, alcuna ripartizione degli utili) presenta – ad avviso dei Giudici salernitani – maggiore coerenza logica con l’ipotesi di cui all’art. 2497 c.c. (i.e., dell’uso strumentale di una società nell’interesse imprenditoriale dell’altra), piuttosto che con la figura della “supersocietà di fatto”, stante anche l’assoluta carenza di prova circa la sussistenza di affectio societatis tra le due entità coinvolte.


2. Sull’estensione del fallimento della società di capitali

La sentenza in parola affida a due ragioni l’accoglimento del reclamo: la prima, relativa alla configurabilità – al di là degli stretti ambiti della fattispecie esaminata – della supersocietà di fatto (con richiamo alle posizioni ormai consolidate della giurisprudenza di legittimità e costituzionale sulle capacità estensive dell’art. 147, 5° comma, L. Fall.). Degna di notazione positiva è la scelta dei Giudici del reclamo di anteporre, per priorità logica, il riscontro alla censura relativa all’applicazione estensiva della disposizione di cui all’art. 147, 5° comma, L. Fall., avanzata dalla società reclamante, il cui fallimento era stato dichiarato dal Tribunale proprio in ragione della norma appena richiamata [1]. La Corte d’Appello – all’esito di un conciso, sia pur esaustivo excursus degli orientamenti assunti in tema dalla Suprema Corte [2] e dalla Consulta [3] – afferma, infatti, che “va disatteso il motivo di reclamo, essendo, non solo configurabile una società in nome collettivo irregolare (società di fatto) partecipata da società di capitali, ma anche ammissibile l’estensione del fallimento della società di capitali alla società di capitali di fatto da essa occulta e, conseguentemente, all’altro socio illimitatamente responsabile”. Aderendo alle difese spiegate dalla curatela e disattendendo le censure del reclamante circa l’inammissibilità dell’estensione ex art. 147, 5° comma, L. Fall. oltre i tipi che contemplino una connaturata responsabilità illimitata dei soci, la Corte d’Appello (in linea con il Tribunale Fallimentare) sposa l’orientamento consolidato, sia delle Corti di merito che di legittimità, secondo cui è evocabile la norma in parola anche qualora il socio occulto di una società fallita – scoperto successivamente alla dichiarazione di fallimento – sia una società di capitali. Società della quale potrà, quindi, dichiararsi il fallimento in estensione (previo accertamento dell’esi­stenza di una società di fatto e, soprattutto, della sua propria insolvenza). I Giudici del reclamo affrontano, poi, gli interrogativi posti dall’interpretazione estensiva accolta dal Tribunale, ovverosia, se l’ordinamento ammetta – [continua ..]


3. La prova della “supersocietà di fatto”

La seconda sezione motiva del provvedimento passa in rassegna gli indici sintomatici dai quali il Tribunale aveva desunto la prova dell’esistenza della supersocietà di fatto [7], onde verificare la loro attitudine – in una valutazione coordinata e complessiva – a fornire la prova dell’occultamento dell’impresa comune. La Corte salernitana, invero – in via preliminare e propedeutica – ritiene necessario chiarire i caratteri distintivi della supersocietà di fatto occulta. Una doverosa puntualizzazione volta ad eliminare in nuce il rischio di confondere “il fenomeno dello svolgimento in comune di un’attività economica da parte di due società (organizzate orizzontalmente) con il ben diverso fenomeno dell’utilizzo strumentale di una società a vantaggio di un’altra (organizzate in senso verticale), attuato attraverso un’attività di direzione e coordinamento della seconda che agisce nel­l’interesse proprio”. Fenomeno, quest’ultimo, “che può dar luogo alla responsabilità della società dominante per i danni cagionati all’altra, a norma dell’art. 2497 c.c., ma non può comportare estensione del fallimento dall’una all’altra”. E proprio tale rischio implica, secondo il monito della Suprema Corte [8] seguito dai Giudici salernitani, che la prova della sussistenza della supersocietà di fatto sia fornita “in via rigorosa, in primo luogo attraverso la dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che deve essere conforme, e non contrario, all’interesse dei soci”. Prova che riposa, quindi, sull’esistenza di un patrimonio e di un’attività comuni, l’effettiva partecipazione a profitti e perdite da parte dei soggetti coinvolti (tutti) e il vincolo di collaborazione tra i soci, con quote che si presumono uguali (artt. 2253 e 2263 c.c.). Puntualizza la Corte d’Appello che “sarà, dunque, necessario accertare scrupolosamente e con un uso prudente dello strumento specie indiziario l’esistenza di una società di fatto e la sua situazione di insolvenza”, in quanto, di converso, “il fatto che le singole società perseguono invece l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo(anche solo di fatto) costituisce, piuttosto, prova contraria [continua ..]


4. Estensione del fallimento: un escamotage “all’italiana” per legittimare il “piercing the corporate veil”?

È ormai trascorso più di un lustro da quando la Suprema Corte è intervenuta in modo incisivo con una triade di sentenze [10] – ben si potrebbe dire “paradigmatiche” – sulla vexata quæstio della c.d. “supersocietà di fatto”, tema classico e caro alla dottrina giuscommercialistica italiana, all’interno della quale il dibattito era già stato ravvivato, all’alba del Nuovo Millennio, dalle novelle al Codice Civile ed alla Legge Fallimentare nelle more intervenute [11]. La tematica – specchio fedele dell’evoluzione del sistema ordinamentale (e, prima ancora, economico-imprenditoriale) – si innesta nel complesso ordito del­l’“ampia e diversificata casistica in cui un imprenditore, individuale o collettivo, domina una o più società di capitali per abusare della personalità giuridica e della responsabilità limitata” [12], il cui fil rouge può individuarsi nella teoretica del c.d. “imprenditore occulto” di bigiaviana memoria [13], peraltro, da sempre terreno di scontri dottrinali e disarmoniche soluzioni giurisprudenziali. Sia pur nell’economia ed ai precisi fini del presente commento, appare opportuno a tal uopo richiamare i tentativi di autorevole dottrina di arginare l’inarrestabile dirompenza di una teoria – quella dell’“imprenditore occulto” – che aveva diffu­samente ammaliato sin dagli esordi, minando alle fondamenta il “totem dell’imputazioni formale degli atti di impresa e della spendita del nome”: il riferimento, oltre alla querelle tra Ferri e Bigiavi, è ad Ascarelli, secondo il quale non era possibile “imputare un’attività indipendentemente dall’imputazione degli atti che la integrano” [14], in tal senso legando in modo inscindibile imputabilità e spendita del nome, con rigetto di ogni implicazione legata al potere d’impresa e/o alla effettiva gestione. L’affermazione con conseguente centralizzazione nel diritto commerciale dell’informazione e della tutela del mercato hanno, però, inevitabilmente condotto all’abbandono delle nostalgiche impostazioni formalistiche, a fronte della valorizzazione (nei termini che saranno meglio specificati infra) del dato fattuale legato alla gestione ad al c.d. “governo [continua ..]


5. Il nodo gordiano dell’ammissibilità della “supersocietà di fatto”: la Cassazione scioglie la riserva

È stata, quindi, la Suprema Corte – con la nota sentenza n. 1095/2016, seguita da diverse conformi [27] – a “sciogliere la riserva” sul tema della ammissibilità della supersocietà di fatto tra società di capitali e/o persone fisiche alla luce delle riforme al diritto societario e fallimentare [28], superando l’impasse rappresentata dall’art. 2361, 2° comma, c.c. attraverso il richiamo alla rappresentanza generale di cui all’art. 2384 c.c. La Cassazione, in particolare – sulla scorta del fatto che a colui che entra in contatto con l’ente societario va riconosciuta la prerogativa di confidare nella spendita del nome dello stesso da parte di coloro che ne hanno la rappresentanza – stante l’inopponibilità di eventuali limitazioni (quantunque pubblicate) prevista dall’art. 2384 c.c., sempre fermo il limite dell’exceptio doli – si è espressa in senso favorevole all’ammissibilità di una (super) società di fatto (occulta, ovvero, irregolare ai sensi dell’art. 2297 c.c.) tra società di capitali, allorché la partecipazione sia assunta dall’amministratore in spregio degli “adempimenti formali” [29] richiesti dall’art. 2361, 2° comma, c.c. (ovverosia, in assenza di previa deliberazione assembleare e successiva indicazione nella nota integrativa al bilancio). La Corte si spinge addirittura più in là, superando anche l’ulteriore ostacolo rappresentato dall’eventuale dissociazione tra potere gestorio e rappresentanza: riconoscere rilevanza esterna a tale disgiunzione, si porrebbe in palese contrasto con le finalità che hanno animato la Riforma e, cioè, quelle di incentivare il reperimento di credito e capitale di rischio, favorendo la tutela del mercato e la certezza dei traffici, minando alle fondamenta la necessaria garanzia per i terzi circa la validità e la stabilità degli atti compiuti dall’organo che ha formalmente la rappresentanza del­l’ente [30]. In tal senso, la partecipazione di una società con responsabilità limitata in una società di persone (anche de facto) non richiederebbe il rispetto del canone della preventiva deliberazione autorizzativa (?) [31] assembleare, trattandosi di “mero atto gestorio dell’organo amministrativo” [continua ..]


6. Evidenti “leggerezze” nella soluzione della Suprema Corte

La soluzione proposta dalla Suprema Corte che – senza alcuno sforzo dissimulatorio – mostra gli effetti dell’eco di una certa impostazione dottrinale, sembra quasi consacrare una sorta di “società del fatto compiuto” a discapito dei “paletti preventivi” posti dall’art. 2361, 2° comma, c.c. [34] che non può andare esente da critiche. Pur sempre nell’economia del presente commento, va rilevata – in via preliminare – una palese imprecisione (o rectius, forzatura) in cui pare essere incappata la Corte capitolina. Ebbene, quando si parla di “certezza dei traffici” e si evoca la ratio dell’art. 2384 c.c., il riferimento resta esclusivamente agli atti negoziali compiuti in nome e per conto della società (e ciò spiega la riserva dell’exceptio doli). Quindi, se non si può non accogliere l’affermazione (peraltro, alquanto ovvia) secondo cui “il rischio delle violazioni commesse dagli amministratori, mediante il compimento di atti eccedenti i poteri loro conferiti, è stato trasferito sulla società, offrendo ai terzi la sicurezza che essa avrebbe fatto fronte agli atti posti in essere, nel suo nome, dagli ammini­stratori, anche se in violazione dei limiti imposti” [35], è altrettanto vero che il presupposto della norma citata resta sempre e comunque il compimento di atti e/o negozi e non di vere e proprie “attività” (ovverosia, una molteplicità di atti sviluppati nel tempo ed aventi una precisa vocazione teleologica), quale è indubbiamente la partecipazione in altra società che, di certo, non si esaurisce in un atto istantaneo. La Corte, quindi, sembra aver pindaricamente confuso quegli atti o negozi puntuali cui fa riferimento l’art. 2384 c.c. con la diversa fattispecie dell’“attività” di cui la dottrina (si vedano Ascarelli [36] ed Auletta [37] su tutti) offre una lucida definizione nei termini di “insieme di atti coordinati o unificati sul piano funzionale dalla unicità dello scopo”. Una “leggerezza” che, però, comporta conseguenze notevoli. Posto, infatti, che l’attività nel suo complesso presenta – rispetto agli atti singulatim considerati – un rischio maggiore, mentre è pacifico che la società risponda degli atti posti in [continua ..]


7. L’ostacolo rappresentato dall’art. 2361, 2° comma, c.c.

È possibile rintracciare un ulteriore “salto” operato dalla Suprema Corte nel congiungere due norme tra loro slegate: il riferimento è al collegamento tra l’art. 2361, 2° comma, c.c. e l’art. 2384 c.c. Posto che le competenze assembleari trovano la loro genesi direttamente nella legge – talché rimane preclusa la possibilità (anche post-Riforma) di attribuire statutariamente all’assemblea competenze segnatamente gestorie – l’art. 2361, 2° comma, c.c. si atteggia a vera e propria norma eccezionale nel momento in cui sottrae dall’alveo della “libera gestione” da parte dell’organo amministrativo un’opera­zione (quella dell’assunzione di “partecipazioni a responsabilità illimitata” [42]) idonea ad introdurre un rischio “atipico” (in quanto eccedente quello considerato dai soci in sede di costituzione e/o di adesione). A ben guardare, la decisione dei soci richiamata dall’art. 2361 c.c., 2° comma, c.c. – a differenza di quanto affermato, anche qui impropriamente, dalla Cassazione – si configura quale “deliberazione” e non mera “autorizzazione” [43]: la compagine societaria, infatti, è chiamata a deliberare su una materia attribuita – per espressa volontà di legge – alla competenza sua propria. Non a caso, infatti, la norma precisamente dispone che “la partecipazione […] deve essere deliberata dall’assemblea”: apertis verbis, il Riformatore, nel superare la preclusione all’assunzione di partecipazioni in enti a responsabilità illimitata, attribuisce ex professo all’assemblea (e solo a questa, sic!) la relativa competenza. Rimane, peraltro, distinto il profilo dell’adempimento di cui all’ultima parte della citata norma (informazione nella nota integrativa al bilancio), finalizzato alla tutela dei terzi [44], di cui a breve si dirà. Il richiamo alla rappresentanza generale di cui all’art. 2384 c.c. appare, quindi, fuorviante ed inconferente, atteso che l’eventuale assunzione di partecipazioni in società a responsabilità limitata senza previa deliberazione assembleare non configurerebbe un travalicamento di limitazioni a rilevanza meramente interna (e per questo inopponibili ai terzi) o di “autorizzazioni”, bensì la [continua ..]


8. Patologia genetica della (super)società di fatto, applicazione quoad effectum dell’art. 2332 c.c. e principio di effettività

La Suprema Corte supera, attraverso il richiamo all’art. 2332 c.c. (ritenuto applicabile anche alle società di persone e, pertanto, anche a quelle de facto), altresì, l’opinione secondo cui la violazione delle prescrizioni di cui all’art. 2361, 2° comma, c.c. comporterebbe l’invalidità o l’inefficacia dell’assunzione della partecipazione: il fenomeno, quantunque viziato ab ovo, non sarebbe comunque irrilevante per l’ordinamento, atteso che non potrebbe determinare la caducazione retroattiva dell’esistenza dell’ente così formato. La declaratoria di nullità dell’atto genetico di una società di persone sarebbe equiparabile quoad effectum allo scioglimento della stessa, sicché – stante il fondante principio di effettività – la patologia originaria, ancorché insanabile, si convertirebbe in causa di scioglimento. Quindi, il vizio generato dal mancato rispetto dell’art. 2361, 2° comma, c.c. – da cui trae origine proprio la supersocietà di fatto – sarebbe sanzionato con la nullità dell’intero rapporto che si convertirebbe – sempre e comunque – in una causa di scioglimento con apertura della successiva fase di liquidazione (ai sensi dell’art. 2332, quarto comma, c.c.). In tal senso, una volta accertata l’esistenza di una (super)società di fatto nulla, questa resterebbe assoggettata allo statuto della s.n.c. irregolare, continuando ad esistere fino alla definizione dei rapporti pendenti, con due dirette conseguenze: a) la “cristallizzazione” dei diritti acquisiti dai terzi creditori in buona fede, ma soprattutto b) l’esposizione al fallimento dell’ente de facto, ove ne venga accertata l’in­solvenza [54]. Orbene, senza sconfinare nell’ipotesi estrema di mutamento dell’oggetto sociale (che pure potrebbe realizzarsi in caso di partecipazione a una società ad una società con responsabilità illimitata con oggetto sociale radicalmente differente), non possono tacersi anche qui le riserve sulle opzioni interpretative della Suprema Corte: il richiamo all’art. 2332 c.c. quoad effectum [55] non risulta sorretto da idonee ragioni, in quanto il profilo dell’affidamento ex se non potrebbe giustificare la necessità di conservare gli effetti dell’attività [continua ..]


9. L’“addenda” del diritto vivente alle capacità espansive dell’art. 147 L. Fall.: la Consulta avalla la “soluzione efficientista” della Cassazione

Tornando al dictum delle pronunzie della Suprema Corte e volendo tirare le somme, quest’ultima – dopo aver dato risposta positiva all’interrogativo circa la fallibilità di una società di capitali, “[anche] a responsabilità limitata, che si accerti essere socia di una società di fatto insolvente, allorché la partecipazione sia stata assunta in mancanza della previa deliberazione assembleare e della successiva indicazione nella nota integrativa al bilancio, richieste dall’art. 2361, secondo comma, cod. civ.” (sent. 21 gennaio 2016, n. 1095, cit.) – espressamente esclude che possa “ammettersi che la società di capitali, la quale abbia svolto attività di impresa operando in società di fatto con altri, possa in seguito sottrarsi alle eventuali conseguenze negative derivanti dal suo agire (ivi compreso il fallimento per ripercussione nel caso in cui sia accertata l’insolvenza della società di fatto)” (sent. 20 maggio 2016, n. 10507, cit.). Ma vi è di più: acclarata l’ammissibilità della supersocietà di fatto, essa rileva che – nell’ipotesi contemplata dall’art. 147, 5° comma, L. Fall. – l’indagine debba essere convogliata dal giudice al duplice accertamento sia dell’effettiva esistenza di una società di fatto (od occulta), cui sia riferibile l’attività dell’imprenditore già dichiarato fallito, che della sua insolvenza. E ciò, in quanto il fallimento della società “svelata” costituisce il presupposto logico-giuridico della dichiarazione di fallimento c.d. “per ripercussione” dei suoi soci illimitatamente responsabili. In buona sostanza, va escluso che il fallimento di questi ultimi possa essere dichiarato in forza dell’accertamento puramente incidentale della ricorrenza tra di essi ed il fallito di una (super)società di fatto. Il fallimento non opera in via automatica, sol perché sia stato rintracciato un vincolo sodale non esternato: 1) perché la declaratoria fallimentare ha natura costitutiva ed efficacia meramente ex nunc, ragion per cui, non si vede come il fallimento dei soci possa conseguire ad un dichiarazione di fallimento “virtuale od implicita” della società; 2) perché non è detto che all’insolvenza del socio dichiarato [continua ..]


10. “Dalla compattezza inespugnabile della fortezza medievale alla fragilità del castello di sabbia”: i riflessi sul “dogma” della personalità giuridica

Attraverso il placet all’applicazione estensiva dell’art. 147, 5° comma, L. Fall. oltre i margini letterali mantenuti dalla Riforma, la Suprema Corte (seguita, a stretto giro, dalla Consulta) con una vera e propria “rivoluzione copernicana” nel sistema del diritto delle società, realizza “l’orrore del legislatore verso la rottura del tabù dell’autonomia patrimoniale perfetta”, generando quella confusione patrimoniale che, in passato, la stessa Corte Costituzionale aveva voluto evitare, in nome di una “soluzione efficientista” che finisce per rompere una muraglia – almeno finora – impenetrabile [67]. Insomma, la Suprema Corte sembra quasi seguire le orme dell’omologa d’Oltre­manica, proponendo una sorta di versione a marchio “Made in Italy” del piercing the corporate veil. Le risoluzioni della Cassazione tradiscono un certo orientamento verso una teoria riduzionistica della personalità giuridica ed una perniciosa (quanto fuorviante) defunzionalizzazione dell’interesse dell’impresa consumata, peraltro, sul terreno sdrucciolevole dell’insolvenza, spingendo la persona giuridica “dalla compattezza inespugnabile della fortezza medioevale alla fragilità del castello di sabbia”. Mentre, però, la soluzione inglese appare come un meccanismo di reazione razionale e necessario, gli argomenti utilizzati a sostegno delle pronunzie dell’anno 2016 si spingono ben oltre la repressione dell’abuso della personalità giuridica, riducendo la stessa ad una semplicistica sommatoria di fatti che si spiegano fuori dalle regole della società-persona giuridica, fino a negarne ogni profilo di soggettività, se non quello relativo all’esecuzione collettiva concorsuale [68]: con un procedimento argomentativo del tutto analogo a quello seguito in tema di impresa illecita, all’ipotesi di società di fatto tra società di capitali si propone di applicare la disciplina più favorevole ai terzi, onde evitare che l’illiceità (che non è detto possa ravvisarsi in senso ontologico nella società de facto) si risolva in favore di chi abbia agito contra legem [69]. La natura eccezionale delle norme di cui all’art. 147 L. Fall. si spiega alla luce del fatto che esse non impattano tanto sulla tutela dei terzi/creditori, [continua ..]


11. Supersocietà di fatto e holding di fatto: profili differenziali. Il banco di prova rappresentato dall’affectio societatis e dal comune intento perseguito

La sentenza della Corte d’Appello di Salerno richiamata in epigrafe ha disatteso la precedente ricostruzione operata dal Tribunale, ritenendo ricorrente nella fatti­specie scrutinata – piuttosto che una “supersocietà di fatto” tra le S.r.l. coinvolte – una “holding di fatto” nel cui schema l’una società veniva strumentalizzata e piegata all’interesse imprenditoriale dell’altra, con conseguente inapplicabilità del fallimento in estensione e, di converso, percorribilità (eventuale) dell’iter risarcitorio previsto per le ipotesi di abuso di direzione e coordinamento dall’art. 2497 c.c. Il precipitato dell’intero impianto argomentativo della Corte salernitana può individuarsi nella (carenza di) prova dell’affectio societatis tra le due S.r.l., profilo che, invero, si rinviene con notevole frequenza nelle pronunce in tema, tanto da potersi ritenere ormai pacificamente acquisito che, se da un lato, potrà lecitamente discorrersi di “supersocietà di fatto” a fronte di due o più soggetti che svolgano un’attività indirizzata da un comune intento sociale (con reciproca collaborazione, pari partecipazione ad utili e perdite e conferimenti in fondo comune) dall’altro, dovrà identificarsi la diversa fattispecie della “holding di fatto” (e, più segnatamente, quella c.d. “pura”), laddove l’interesse perseguito dalle diverse entità interessate sia quello proprio delle persone che esercitano il controllo sui vari soci coinvolti. Nel caso in esame, la Corte individua una “relazione verticale” (e non paritetica) tra le due società coinvolte – ambedue dirette e coordinate da un unico centro gestorio – nell’ambito della quale l’una svolgeva (soprattutto in una seconda fase) “funzione strumentale […]di finanziatore nell’esclusivo interesse” dell’altra, in quanto – oltre a non emergere alcuna partecipazione della prima ai risultati dell’attività produttiva svolta dalla seconda (in termini sia di profitti che di perdite) – è rilevabile unicamente la “pura e semplice messa a disposizione di risorse[…]in maniera unilaterale[…]attraverso un finanziamento (fittizio o meno) e l’anticipazione (fittizia o meno) della liquidità [continua ..]


12. Gli orientamenti delle Corti di merito sull’individuazione del comune intento perseguito

Il riferimento all’affectio societatis, al di là della carica evocativa e l’indubbia rilevanza ai fini della configurabilità della società di fatto, avrebbe richiesto da parte della Suprema Corte uno sforzo maggiore in termini di perimetrazione concettuale, risultando più logico il richiamo ad un’“unica attività di impresa”, svolta in comune dai “soci” della società collettiva – sia pure variamente strutturata secondo una operatività che può comportare l’esercizio per conto proprio (e tal volta anche in nome proprio) di fasi dell’attività – senza, con ciò, smarrire la necessaria individuazione dell’attività oggettivamente svolta in comune, intesa come fenomeno oggettivo di produzione di ricchezza sul mercato (profilo, viepiù rilevante nel caso di partecipazione di una società di capitali ad una società di fatto, apparente ed occulta). L’espressione “comune intento sociale perseguito” viene, invero, evocata con riferimento alla società di fatto in sé considerata, senza alcun accenno alla compatibilità tra detto “intento” (o, rectius, “scopo”) e quello proprio della società di capitali, in cui la delimitazione dell’attività economica (i.e., l’oggetto sociale), assurge ad elemento di configurazione “strutturale” dell’attività dell’ente [79]. Anche in questo caso, il motivo di tale “deficienza valutativa” si riscontra nell’approccio eccessivamente “pragmatico” della Corte, “ispirato a volte dalla mera necessità di “impinguare” fallimenti esangui [80], oppure ricercato nel vago sapore moralistico o sanzionatorio a fronte di comportamenti (a volte, effettivamente) abusivi, che caratterizzano l’ispirazione di queste sentenze” [81]. Alla luce delle perplessità supra mostrate, non resta che verificare se quel riferimento al “rigido” presupposto probatorio dell’affectio societatis sia stato, nei fatti, osservato dalle Corti di merito nelle pronunce intervenuto dopo la “triade” del 2016. Si richiama, in apertura, una decisione del Tribunale di Sulmona [82] che – allontanandosi dalle stringenti indicazioni della Corte – fornisce una valutazione [continua ..]


13. La prova della società di fatto in presenza di legami familiari tra i soci: affectio “societatis” o affectio “familiaris”?

Nonostante parte della dottrina abbia fermamente criticato l’“inutile enfasi” posta sull’affectio societatis, negando a questa lo statuto di “requisito identificativo distintivo” – in quanto “aspetto della causa del contratto” [89] (piuttosto che del sodalizio in sé considerato) ed “elemento infimo ed evanescente” [90] – e “la formula dell’affectio societatis sembri rimandare in modo piuttosto esplicito ad un livello d’indagine che attiene alla dimensione psicologica del fenomeno”, essa, per contro, affermerebbe un ben preciso bisogno (di carattere pratico e non meramente teorico), ovverosia, “il bisogno di valutare il significato sociale di determinate condotte al fine di stabilire (con obiettiva certezza) se esse si inseriscono nel contesto di un’attività comune o sono da ricondurre a rapporti di diversa natura” [91], quali, ad esempio, quelli di natura familiare o coniugale (intesa nel senso più ampio) [92]. Vale la pena, in tale prospettiva, soffermarsi su un aspetto – quello dell’affectio familiaris – invero, completamente glissato dalla Corte salernitana nella sentenza che qui si annota, nonostante le evidenti relazioni familiari intercorrenti tra soci ed organi gestori delle società coinvolte e, soprattutto, l’opportunità di corredare le motivazioni dell’accoglimento del reclamo con un ulteriore elemento in grado di sorreggere e corroborare l’iter ricostruttivo seguito. Come precisato in varie occasioni dalla Suprema Corte, l’esistenza di legami lato sensu affettivi [93] implica, infatti, la necessità di una prova ancor più rigorosa dell’operatività di una società di fatto e dell’esteriorizzazione del vincolo sociale tra i suoi singoli soci, fondata su elementi de facto e circostanze concludenti tali da escludere che il loro intervento nelle attività sia ispirato dalla mera “affectio familiaris” (o “coniugalis”), piuttosto che alla volontà di partecipare al sodalizio secondo i “canoni” dell’art. 2247 c.c. In tal senso, può negarsi ogni profilo di rilevanza dell’affectio familiaris solo nell’ipotesi in cui il rapporto d’affari (intercorrente tra due o più soggetti legati da vincoli di consanguineità od [continua ..]


14. Possibili epifenomeni dell’abuso della personalità giuridica: la responsabilità da direzione e coordinamento come “nuova frontiera dell’attività recuperatoria”

Nei casi portati all’attenzione delle massime Corti italiane, si è di fronte a società utilizzate da imprenditori – sia individualmente che de facto in società con altri soggetti – come mero “strumento abusivo” (come direbbe Bigiavi, “adoperate come cosa propria” [98]) e, non di certo, sulla base di un contratto sociale, né condividendo alcuna affectio. Nella pratica, infatti, la situazione-tipo più ricorrente è quella in cui una o più persone si servono (di una o più) società di capitali per frammentare e segregare attività e patrimoni, “subornando” le stesse ad una strategia complessiva che può avere connotazioni patologiche. Anche se la Legge prevede e regola ex professo esclusivamente la fattispecie di eterodirezione “anomala” (di cui all’art. 2497 c.c.), i possibili “epifenomeni” del­l’abuso dello schema (o, rectius, dello “schermo”) societario vengono ricondotti, dai “formanti” dottrinale e giurisprudenziale, sotto due diverse categorie: quella della “(super)società di fatto” e quella della “holding di fatto”. Ora, mentre il fenomeno della supersocietà si caratterizza – giova ribadirlo – “necessariamente” per l’intento, da parte di tutti i soci, di perseguire congiuntamente ed unitariamente il medesimo intento sociale (a venire in rilievo è un interesse unico, quello della supersocietà, perseguito da tutti i partecipanti ed in linea con i singoli ed originari interessi di ciascun socio coinvolto), nella holding (di fatto) è individuabile un soggetto (il c.d. “parent”) che – abusando dei poteri di direzione e coordinamento e in piena elusione dei principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale – agisce nel proprio esclusivo interesse (o nell’interesse di un terzo), conseguendo un vantaggio – in termini economici – attraverso le attività imprenditoriali svolte dalle società cc.dd. “subsidiaries”, con coordinamento, commistione ed organizzazione dei relativi fattori produttivi, il tutto naturaliter in maniera occulta ed illecita. Ed è proprio la patologia (i.e., l’abuso) – che, si badi bene rimane pur sempre un’eventualità (sia pur molto frequente) [continua ..]


15. (Segue): perplessità in ordine alle possibili confusioni sul piano rimediale

La soluzione proposta dalla Corte salernitana nel provvedimento che qui si annota offre ancora un ulteriore spunto di riflessione: la riconduzione della fattispecie esaminata sotto l’egida della holding di fatto (piuttosto che nell’alveo della supersocietà di fatto), stante il deficit probatorio circa la sussistenza tra le società coinvolte di affectio societatis, non può non richiamare l’attenzione sulla possibile ipotesi di ricorrenza congiunta delle due fattispecie, specie con riferimento ai conseguenti esiti in sede fallimentare. L’ipotesi configurabile è quella della dichiarazione di fallimento “in estensione” della supersocietà di fatto (occulta) – ai sensi dell’art. 147, 5° comma, L. Fall. – costituita tra il soggetto controllante (società o persona fisica) e la società di capitali controllata, la cui esistenza venga disvelata solo dopo la dichiarazione di insolvenza di quest’ultima. Sul punto, si è osservato che – seguendo il criterio “sostanziale” di imputazione della “spendita”, non del nome, bensì dell’“interesse” – sarebbe percorribile la strada della dichiarazione di fallimento “per ripercussione” della controllante, alla quale ricondurre gli effetti dell’attività d’impresa posta in essere dalla controllata fallita e, quindi, dell’insolvenza “imputabile” alla super-società di fatto occulta tra di loro costituita [116]. Ad onor del vero, però, una ricostruzione di tal fatta sembra eludere proprio la disposizione di cui all’art. 147, 1° comma, L. Fall. (confermata, peraltro, nell’art. 256, 1° comma, CCII), legata, per contro, al criterio “tradizionale” della spendita del nome, nonché la limitazione della tecnica di estensione ai soli soci “per loro stessa natura” illimitatamente responsabili. Non è difficile, inoltre, rintracciare nelle varie pronunce intervenute in tema un ulteriore “cortocircuito” argomentativo: il riferimento è all’espresso rimando al­l’a­gire “nell’interesse proprio o altrui in violazione dei principî di corretta gestione societaria e imprenditoriale” utilizzato, spesso, come referente legittimante il meccanismo di estensione della responsabilità [continua ..]


16. Rilievi critici conclusivi: l’art. 256 del Codice della Crisi e dell’In­solvenza come “ultimo tassello” nel percorso creativo della supersocietà di fatto

La triade di sentenze con le quali la Suprema Corte – nel giro di soli sei mesi – ha “sconvolto il mondo”, offre l’occasione per una critica conclusiva (ma non per questo meno importante), questa volta, al modus interpretandi seguito, specie in ragione del fatto che quelle interpretazioni – frutto di un uso non parsimonioso di figure retoriche (dalle quali ben dovrebbe guardarsi l’interprete) [126] – hanno successivamente finito per innervare e suggestionare la disposizione di cui all’art. 256, 5° comma del Codice della Crisi e dell’Insolvenza, nella cui Relazione illustrativa si legge – infatti – che questa “trova il suo fondamento nella più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. n. 1095/ 2016) e della Corte Costituzionale (C. Cost. n. 255 del 2017) e consiste nella espressa previsione che, in caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale nei confronti di una società, ove si accerti che l’impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto, di cui la società in liquidazione è socio illimitatamente responsabile, il tribunale dispone l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale nei confronti della società di fatto così accertata e degli altri soci illimitatamente responsabili della società”. Il nuovo art. 256, 5° comma, CCII, a ben guardare, sembra comportare un’e­stensione della solvibilità in capo alle società di capitale, colmando quella parte su cui l’art, 147 L. Fall. era rimasto silente e confermando quella giurisprudenza che ne aveva consacrato l’interpretazione estensiva [127]. “In tal modo, l’utilizzo, nel linguaggio giuridico della metafora assolve alla funzione di rinvenire nel lessico giuridico noto, un termine da utilizzare come referente per un concetto giuridico privo, fino a quel momento, di un “significato” giuridico proprio, sulla base di somiglianza o affinità tra rispettivi concetti precettivi. Vi è, però, che, nella specie, al difetto di significazione linguistica, si è accompagnata la malia delle parole, e questa ha finito per produrre “formule giuridiche” con elevato tasso di magia, e il legislatore – come l’apprendista stregone – utilizzandole ha creato un vero e proprio [continua ..]


NOTE